Lago di Cama : briciole di memoria territoriale
Il contesto è quello della solita banda di « soci »
che ogni anno si ritrova per una camminata, una notte di racconti, ricordi e
canzoni, e uno o due buoni pasti. Anche quest’anno le cose sono andate così e,
come ogni anno, un luogo diverso : questa volta tocca al Lago di Cama. Un
laghetto naturale (nella misura in cui non è stato cinturato da un muro
convesso di cemento) in fondo alla Val Cama. E come il nome indica, si parte
dalla località mesolcinese di … Cama.
Già prima di arrivare in quella località, qualcosa colpisce :
lungo la strada per recarsi a Cama (a volte accanto, a volte sotto le ruote) scorrono i binari di
una ferrovia. E’ la vecchia BM, la Bellinzona-Mesocco, smantellata come tante
altre, spinte all’obsolescenza dallo sviluppo automobilistico e di cui restava,
fino a poco fà, solo un segmento, da Castione a Cama. Ma anche quest’ultimo pezzo,
oggi, è diventato silenzioso. E’ sicuramente inutile farsi illusioni
nostalgiche, perché il traffico passeggeri oggi sostituito dall’autopostale
presenta pure i suoi vantaggi, non da ultimo quello di partire vicino alla
porta di casa. Al di là della nostalgia (a cui tutti si ha diritto, perché è un
sentimento umano) resta il fatto che il mantenimento e l’ammodernamento delle
linee secondarie (anche la BM quindi) avrebbero potuto rappresentare un supporto
infrastrutturale per la mobilità urbana degli agglomerati. E’ sicuramente
facile, col senno di poi, dire che si
sarebbe dovuto pensarci, ma l’attuale proposta federale di riflettere sullo
smantellamento di 175 ferrovie secondarie (locali, avrei voglia di dire) sembra
mostrare che neppure oggi – che gli
agglomerati sono la realtà presente nella quale viviamo – si sia preso
coscienza dell’importanza della mobilità ferroviaria (ferrovie a diversi
scartamenti, tram, ecc.). E’ evidente, poi, che prendendo in considerazione le attuali
situazioni finanziarie di Confederazione e Cantoni, aggiunte ad un clima
politico imperniato alla chiusura e all’opposizione a qualsiasi progetto,
alcune di quelle linee sono veramente destinate a sparire. Tuttavia, la proposta ha un
pregio : quello di obbligare a riflettere in termini di mobilità urbana,
considerando tra l’altro che un trenino di campagna fa parte anch’esso di un
modo di vita urbano (pendolarismo, turismo, ecc.). L’argomento redditività non
è da sottovalutare, siamo d’accordo: ha senso infatti mantenere in piedi
un’infrastruttura pagata in (buona) parte anche da chi non la usa ? Ma non
bisogna dimenticare la domanda opposta : quante sono, nelle città o negli
agglomerati, le linee urbane propriamente dette che non sono deficitarie
o che raggiungono il 50 % di redditività? Anche qui, una parte dei costi viene
sostenuta da chi non è utente e tanto meno abitante. Questa prima parte del
XXIo secolo è quella dei trasporti collettivi nella maggior parte dei flussi di
mobilità individuale (fosse anche solo per il costo del carburante) e sarebbe
ora che chi ne ha la reponsabilità cominciasse a progettare in questi termini. Sia la mobilità quotidiana della popolazione
che la popolazione stessa sono destinate ad aumentare nei decenni a venire, e
non saranno le ossessioni antidemografiche, che si stanno manifestando in
misura diversa in tutti i partiti politici, ad impedire queste crescite. E’ in
questi termini che dovrebbero essere analizzati i 175 tronchi ferroviari nel
mirino della Confederazione : almeno così, anche la scomparsa della BM
sarà servita a qualcosa. Ma torniamo sui nostri passi.
Ci si infila quindi sul sentiero per affrontare i trecento
(primi) metri di dislivello fatti praticamente tutti a scalini prima di entrare
decisamente nella valle vera e propria. Ma anche qui non si sfugge alla
ferrovia : numerose sono le traversine metalliche che servono a sostenere
e a rinforzare gli scalini. Riciclaggio intelligente, certo, ma anche scampoli
di memoria sparsi nel territorio. Non sono andato nei dettagli, ma non sarei
sorpreso di trovare nelle cascine di quei monti altri pezzi di ferrovia, come
pure negli orti degli abitanti dei villaggi sottostanti.
Un fruscío attira l’attenzione. E’ una lucertola che sta
pranzando : dalla bocca sporge un lombrico quasi più grande di quel
rettile preistorico. Si resta un bel momento ad osservarla, tento qualche
fotografia, ma manca una buona luce. Il tempo di piazzare il treppiedi e la
lucertola se ne andrebbe. Allora provo a mano libera : il risultato è
pessimo. Pazienza. Allora si continua la salita.
Camminando mi viene in mente una notizia di cronaca letta
due giorni prima, nella quale si raccontava dell’incidente dove avevano
perso la vita un guardiacaccia in pensione e il suo amico lungo un banale
sentiero di montagna in seguito alla caduta di un sasso. Non ho finito di
raccontare che davanti a noi scopriamo un sasso appoggiato alla ringhiera del
sentiero : guardando sul lato opposto si scopre la recentissima ferita
nella roccia da dove si era staccato e altre fessure pronte a dar piena licenza
agli effetti gravitazionali. La verticalità non è solo un concetto e il
sentiero è una traccia incisa nel contesto della verticalità. Tutto quel che ci
sta attorno, in questo bosco dove piante e pietre si mescolano, ci ricorda la
dinamica della verticalità e il sasso, fresco di caduta, sottolinea il fatto
che siamo immersi nella continuità del tempo. E’ strano come solo la presenza
di qualcosa « fuori posto » ci permetta di capire che la natura non è
a-temporale. Un sentiero sopra un sasso è segno di stabilità : un sasso
sopra un sentiero introduce una dissonanza, un disordine che rivela l’instabilità
delle cose. In un certo senso, quel masso fresco di caduta è una metafora del
mondo e dell'attualità nella quale viviamo, imperniata al rifiuto sistematico (o
semplicemente alla volontà di rifiuto) delle trasformazioni. Un rifiuto puramente declamatorio, perché se
fosse possibile fermarsi, avremmo inventato l’eternità.
Lungo il sentiero, ad intervalli irregolari, appaiono
piccole targhette che ricordano il toponimo del luogo sul quale si sta
transitando, fornendo una breve spiegazione dell’origine o del perché attraverso
l’etimologia o l’allusione a fatti avvenuti o leggendari. Ci troviamo così
davanti ad una toponimia vernacolare, spezzoni di memoria locale che qualcuno
ha voluto mettere in rilievo per mantenere presente parte di quella pratica
della montagna ormai sparita. Non potendo fermare il tempo, possiamo almeno
creare un legame di continuità tra chi, prima, viveva di (e in) quella montagna
e chi, oggi, vive con quella
montagna. Questa continuità è interessante nella misura in cui rappresenterrebbe
una forma di resistenza contro l’oblío, oggi rafforzato dal fatto che questa foresta è diventata una riserva, uno
spazio cioè dove lo sfruttamento da parte degli esseri umani è bandito. Sparendo
l’uso di un territorio, sparisce pure a lungo andare anche il nome. Marcare i
luoghi con i nomi (locali) di origine (anche se si tratta dell’ultimo toponimo dopo
una lunga trasformazione nel tempo o anche solo del risultato di una leggenda)
è una maniera per ricordare quanto l’ambiente sia legato alla storia delle
società e quanto l’ambiente « naturale » sia sempre una scelta
sociale. «La rose d’autrefois existe en
tant que nom, il ne nous reste que des noms nus», così termina il film « Le
nom de la rose » di Jean-Jacques Annaud citando la fine dell’omonimo libro
di Umberto Eco. Non saprei quale senso esatto Eco volesse dare a questa frase,
ma nel nostro contesto essa si applica bene alla toponimia, soprattutto a quella
vernacolare. Il toponimo espressione di una pratica territoriale ad un dato
momento della storia è il nome di quella pratica. Oggi questa è sparita e a noi
rimane solo un nome : un nome nudo. Marcandone la presenza nello spazio,
lo rivestiamo impedendone lo scioglimento nell’oblío. Come per i vestiti però,
non tutti gli abiti sono adatti : resta quindi sempre aperto il problema
dell’uso che si vuol fare di questi « ricordi ».
E per finire, il solo piacere degli occhi e della camminata.
E per finire, il solo piacere degli occhi e della camminata.