mercredi 24 octobre 2012

Valle di Cama


Lago di Cama : briciole di memoria territoriale



Il contesto è quello della solita banda di « soci » che ogni anno si ritrova per una camminata, una notte di racconti, ricordi e canzoni, e uno o due buoni pasti. Anche quest’anno le cose sono andate così e, come ogni anno, un luogo diverso : questa volta tocca al Lago di Cama. Un laghetto naturale (nella misura in cui non è stato cinturato da un muro convesso di cemento) in fondo alla Val Cama. E come il nome indica, si parte dalla località mesolcinese di … Cama.

Già prima di arrivare in quella località, qualcosa colpisce : lungo la strada per recarsi a Cama (a volte accanto, a volte sotto le ruote) scorrono i binari di una ferrovia. E’ la vecchia BM, la Bellinzona-Mesocco, smantellata come tante altre, spinte all’obsolescenza dallo sviluppo automobilistico e di cui restava, fino a poco fà, solo un segmento, da Castione a Cama. Ma anche quest’ultimo pezzo, oggi, è diventato silenzioso. E’ sicuramente inutile farsi illusioni nostalgiche, perché il traffico passeggeri oggi sostituito dall’autopostale presenta pure i suoi vantaggi, non da ultimo quello di partire vicino alla porta di casa. Al di là della nostalgia (a cui tutti si ha diritto, perché è un sentimento umano) resta il fatto che il mantenimento e l’ammodernamento delle linee secondarie (anche la BM quindi) avrebbero potuto rappresentare un supporto infrastrutturale per la mobilità urbana degli agglomerati. E’ sicuramente facile, col senno di poi,  dire che si sarebbe dovuto pensarci, ma l’attuale proposta federale di riflettere sullo smantellamento di 175 ferrovie secondarie (locali, avrei voglia di dire) sembra mostrare che neppure oggi – che  gli agglomerati sono la realtà presente nella quale viviamo – si sia preso coscienza dell’importanza della mobilità ferroviaria (ferrovie a diversi scartamenti, tram, ecc.). E’ evidente, poi, che prendendo in considerazione le attuali situazioni finanziarie di Confederazione e Cantoni, aggiunte ad un clima politico imperniato alla chiusura e all’opposizione a qualsiasi progetto, alcune di quelle linee sono veramente destinate a sparire. Tuttavia, la proposta ha un pregio : quello di obbligare a riflettere in termini di mobilità urbana, considerando tra l’altro che un trenino di campagna fa parte anch’esso di un modo di vita urbano (pendolarismo, turismo, ecc.). L’argomento redditività non è da sottovalutare, siamo d’accordo: ha senso infatti mantenere in piedi un’infrastruttura pagata in (buona) parte anche da chi non la usa ? Ma non bisogna dimenticare la domanda opposta : quante sono, nelle città o negli agglomerati,  le linee urbane propriamente dette che non sono deficitarie o che raggiungono il 50 % di redditività? Anche qui, una parte dei costi viene sostenuta da chi non è utente e tanto meno abitante. Questa prima parte del XXIo secolo è quella dei trasporti collettivi nella maggior parte dei flussi di mobilità individuale (fosse anche solo per il costo del carburante) e sarebbe ora che chi ne ha la reponsabilità cominciasse a progettare in questi termini.  Sia la mobilità quotidiana della popolazione che la popolazione stessa sono destinate ad aumentare nei decenni a venire, e non saranno le ossessioni antidemografiche, che si stanno manifestando in misura diversa in tutti i partiti politici, ad impedire queste crescite. E’ in questi termini che dovrebbero essere analizzati i 175 tronchi ferroviari nel mirino della Confederazione : almeno così, anche la scomparsa della BM sarà servita a qualcosa. Ma torniamo sui nostri passi.

Ci si infila quindi sul sentiero per affrontare i trecento (primi) metri di dislivello fatti praticamente tutti a scalini prima di entrare decisamente nella valle vera e propria. Ma anche qui non si sfugge alla ferrovia : numerose sono le traversine metalliche che servono a sostenere e a rinforzare gli scalini. Riciclaggio intelligente, certo, ma anche scampoli di memoria sparsi nel territorio. Non sono andato nei dettagli, ma non sarei sorpreso di trovare nelle cascine di quei monti altri pezzi di ferrovia, come pure negli orti degli abitanti dei villaggi sottostanti.

Un fruscío attira l’attenzione. E’ una lucertola che sta pranzando : dalla bocca sporge un lombrico quasi più grande di quel rettile preistorico. Si resta un bel momento ad osservarla, tento qualche fotografia, ma manca una buona luce. Il tempo di piazzare il treppiedi e la lucertola se ne andrebbe. Allora provo a mano libera : il risultato è pessimo. Pazienza. Allora si continua la salita.

Camminando mi viene in mente una notizia di cronaca letta due giorni prima, nella quale si raccontava dell’incidente dove avevano perso la vita un guardiacaccia in pensione e il suo amico lungo un banale sentiero di montagna in seguito alla caduta di un sasso. Non ho finito di raccontare che davanti a noi scopriamo un sasso appoggiato alla ringhiera del sentiero : guardando sul lato opposto si scopre la recentissima ferita nella roccia da dove si era staccato e altre fessure pronte a dar piena licenza agli effetti gravitazionali. La verticalità non è solo un concetto e il sentiero è una traccia incisa nel contesto della verticalità. Tutto quel che ci sta attorno, in questo bosco dove piante e pietre si mescolano, ci ricorda la dinamica della verticalità e il sasso, fresco di caduta, sottolinea il fatto che siamo immersi nella continuità del tempo. E’ strano come solo la presenza di qualcosa « fuori posto » ci permetta di capire che la natura non è a-temporale. Un sentiero sopra un sasso è segno di stabilità : un sasso sopra un sentiero introduce una dissonanza, un disordine che rivela l’instabilità delle cose. In un certo senso, quel masso fresco di caduta è una metafora del mondo e dell'attualità nella quale viviamo, imperniata al rifiuto sistematico (o semplicemente alla volontà di rifiuto) delle trasformazioni.  Un rifiuto puramente declamatorio, perché se fosse possibile fermarsi, avremmo inventato l’eternità.  

Lungo il sentiero, ad intervalli irregolari, appaiono piccole targhette che ricordano il toponimo del luogo sul quale si sta transitando, fornendo una breve spiegazione dell’origine o del perché attraverso l’etimologia o l’allusione a fatti avvenuti o leggendari. Ci troviamo così davanti ad una toponimia vernacolare, spezzoni di memoria locale che qualcuno ha voluto mettere in rilievo per mantenere presente parte di quella pratica della montagna ormai sparita. Non potendo fermare il tempo, possiamo almeno creare un legame di continuità tra chi, prima, viveva di (e in) quella montagna e chi, oggi, vive con quella montagna. Questa continuità è interessante nella misura in cui rappresenterrebbe una forma di resistenza contro l’oblío, oggi rafforzato dal fatto che  questa foresta è diventata una riserva, uno spazio cioè dove lo sfruttamento da parte degli esseri umani è bandito. Sparendo l’uso di un territorio, sparisce pure a lungo andare anche il nome. Marcare i luoghi con i nomi (locali) di origine (anche se si tratta dell’ultimo toponimo dopo una lunga trasformazione nel tempo o anche solo del risultato di una leggenda) è una maniera per ricordare quanto l’ambiente sia legato alla storia delle società e quanto l’ambiente « naturale » sia sempre una scelta sociale. «La rose d’autrefois existe en tant que nom, il ne nous reste que des noms nus», così termina il film « Le nom de la rose » di Jean-Jacques Annaud citando la fine dell’omonimo libro di Umberto Eco. Non saprei quale senso esatto Eco volesse dare a questa frase, ma nel nostro contesto essa si applica bene alla toponimia, soprattutto a quella vernacolare. Il toponimo espressione di una pratica territoriale ad un dato momento della storia è il nome di quella pratica. Oggi questa è sparita e a noi rimane solo un nome : un nome nudo. Marcandone la presenza nello spazio, lo rivestiamo impedendone lo scioglimento nell’oblío. Come per i vestiti però, non tutti gli abiti sono adatti : resta quindi sempre aperto il problema dell’uso che si vuol fare di questi « ricordi ».

E per finire, il solo piacere degli occhi e della camminata.