Viaggiando si fa la strada
Claudio Ferrata
La strada come infrastruttura
Un sistema di trasporto, soluzione che permette di risolvere i problemi
indotti dalla distanza, è costituito da una via, da un mezzo in movimento, da
un contesto geografico e, naturalmente, dalla movimentazione di merci o di persone.
Le infrastrutture ad esso connesse trasformano l’accessibilità dei luoghi e le
territorialità che questi esprimono. Così, lo spazio geografico, da isotropo,
non orientato e non differenziato, acquisisce nuove polarità e nuove linee di
forza. In questo senso l’allestimento di un sistema di trasporto deve essere
visto come strumento privilegiato della produzione e della gestione dei
territori. Molte di queste infrastrutture hanno oggi assunto una presenza
importante nel paesaggio. Come faceva notare Bernardo Secchi “viadotti e
svincolo solcano e connotano, spesso in modi aggressivi, la città, ne separano
le singole parti costruendo barriere invalicabili, divengono i principali
riferimenti spaziali entro una città che perde la propria misura, la stringono
entro cinture sovente troppo strette e ne modificano immagine e modi di
funzionare; ponti, viadotti, e gallerie ridisegnano vasti territori in ogni
parte del pianeta costruendo nuovi paesaggi”. Molto è già stato detto e scritto sul rapporto tra manufatti stradali
e paesaggio e diversi sono stati i progetti che si sono posti seriamente il
problema dell’integrazione dell’opera nella dimensione territoriale e paesaggistica,
dalle prime parkway americane sino ad
alcune esperienze contemporanee. In Francia il ministero dei Trasporti ha
deciso di circondarsi di un gruppo di consiglieri comprendenti ricercatori (specialisti
in acustica, geografi, filosofi, ecologi) e operatori per meglio integrare le autostrade
con il paesaggio e alcune recenti realizzazioni hanno potuto usufruire di una
percentuale del costo totale dei lavori da destinare ad un trattamento
paesaggistico dell’opera. Da qualche decennio, in Svizzera il disegno dell’oggetto tecnico, dal
camino di aerazione al portale della galleria, dal ponte alla scelta della
pendenza da attribuire alla massicciata, è seriamente preso in considerazione
dai progettisti. È noto il ruolo anticipatore svolto da Rino Tami, in particolare
nella costruzione del tratto ticinese dell’autostrada A2. Il lavoro di Tami fu
preso a modello da Flora Ruchat-Roncati e Renato Salvi incaricati di curare la
parte architettonica e paesaggistica della realizzazione della A16, la Transjurane. Pure in occasione della realizzazione
dei recenti tracciati, tra cui quello della A9, l’Autoroute du Rhône, il tratto vallesano della rete autostradale
nazionale a cui è dedicato questo numero di ARCHI, è emerso questo genere di preoccupazioni.
Dall’infrastruttura alla via
Al di là dell’interesse e dell’importanza di affrontare il tema delle
infrastrutture attraverso queste chiavi di lettura, è possibile considerare la questione
adottando un altro punto di vista. È ciò che desideriamo suggerire con questo
breve testo. Come ricorda Jean-Marc Besse, esistono due tipi di geografie. Una prima che si qualifica come scienza
degli spazi concreti, un sapere di stampo positivista che quantifica, descrive
strutture, evidenzia polarità e ha come riferimento uno spazio euclideo. Questa
geografia altro non è che una scienza dello spazio e delle distanze. In questo
caso, l’uomo è un oggetto esterno e passivo. Ma esiste anche una seconda geografia
in cui l’individuo è più direttamente coinvolto. Come cercheremo di precisare,
il suo agire nello spazio non è passivo o semplicemente determinato dalle
condizioni fisiche. Se applichiamo questi due diversi approcci ai temi della
mobilità e alla questione dei sistemi di trasporto, notiamo che la prima
visione è molto vicina a quella dell’ingegnere capace di costruire manufatti in
grado di rispondere alle esigenze e alle sollecitazioni dei mezzi che
percorrono le strade, i ponti, le gallerie, siano essi automobili, autocarri o treni,
e che segue logiche di razionalità e efficienza. Prendere in considerazione la seconda
visione, invertendo in un certo senso l’ordine dei fattori, ci porterebbe invece
a privilegiare il viaggiare e l’esperienza del viaggio rispetto al sistema di
trasporti. Ci avvicineremmo così a una dimensione che potremmo chiamare “antropologia
del paesaggio”, una disciplina ancora in buona parte da costruire. Nella
seconda metà del Novecento, lo studioso americano John Brinkerhoff Jackson si
fece promotore di un nuovo campo di studi che, sulla base dell’etimo greco hodos
(strada e viaggio), definì odologia.
Per la verità il termine non fu coniato dallo stesso Jakson ma fu precedentemente
introdotto dallo psicologo sperimentale tedesco Kurt Lewin per descrivere le
strutture dello spazio vissuto. Ad ogni modo, l’odologia, scienza del cammino e
della strada nelle sue implicazioni con il paesaggio, deve essere considerata
come una disciplina composita, in parte geografia, in parte planning, in parte ingegneria, si legge
in Road Belong to the Landscape, saggio
dal titolo quanto meno esplicito. Jackson spiega poi che
il temine way è più adatto del
più recente road significa cammino ma anche direzione, progetto,
modalità. Se adottassimo questa prospettiva,
alla strada, o meglio ancora, al “fare la strada”, dovremmo attribuire un ruolo
attivo nella fabbricazione del paesaggio.
Le lezioni della deriva urbana
Nel primo episodio del suo film Caro
Diario (1990), Nanni Moretti ci ha fornito una bella illustrazione delle strette
relazioni tra via, percorso e paesaggio. In una assolata domenica estiva, in
sella alla sua vespa blu, Moretti attraversa una Roma semi-deserta. La deriva diventa
una narrazione che unisce esperienza di viaggio a luoghi. Lo scooter di Moretti
è immerso in un paesaggio carico di significati, la percezione del guidatore è
dinamica, la camera lo segue da vicino. Il percorso si svolge attraverso lo
sviluppo urbanistico della Roma novecentesca del quartiere della Garbatella,
continua poi nella periferia fino alla spiaggia di Ostia. Dopo una lunga
deriva, come uno stalker, Moretti
giunge in un luogo carico di senso e di significato per la storia del Novecento
italiano, il luogo dove un semplice “monumento” ricorda la brutale uccisione di
Pasolini.
Alcuni anni orsono lo scrittore inglese Iain Sinclair percorse la M25,
l’anello autostradale esterno di Londra, dieci corsie che si estendono su una
lunghezza di 200 km., lasciando una testimonianza scritta e in immagini video nel
suo London orbital (2008).
La tappa iniziale e conclusiva del percorso fu il Millenium Dome, il più
colossale fallimento del governo Blair. L’autore partì in compagnia di un
cineasta e di un artista il 27 marzo 1998 e tornò al punto di partenza il 30
dicembre 1999, poco prima dell’inaugurazione della struttura. Lo scopo
esplicito dell’operazione era la ricostruzione delle storie che sopra, dentro,
sotto le topografie urbane si sono articolate nel tempo e che emergono nelle
loro molteplicità. Due scrittori italiani, Gianni Biondillo e Michele Monina,
hanno recentemente applicato il medesimo approccio itinerante e esperienziale alla
conoscenza delle periferie milanesi. Nelle pagine del libro pubblicato al
seguito di questa esperienza il percorso psicogeografico dei due viandanti ai
margini della metropoli si trasforma in una duplice descrizione delle dieci tappe
e in un dialogo non privo di ironia, di digressioni su fatti diversi e di
analisi urbanistiche.
In fondo gli autori che abbiamo voluto citare sono in buona compagnia, non
fanno altro che allinearsi alla lunga tradizione delle derive urbane dei filosofi,
letterati, situazionisti, artisti dadaisti, surrealisti e della Land Art. Per
questi il movimento non solo condiziona la nostra percezione, ma diventa un
metodo e una filosofia. Tra i numerosi autori dobbiamo ricordare il filosofo
tedesco Walter Benjamin, colui il quale ha trasformato il flâneur in una figura rappresentativa e emblematica della metropoli
del Diciannovesimo secolo. Nel suo Passagen-Werk
Benjamin descrisse le vie pedonali coperte di Parigi che egli eresse a simbolo
della incipiente modernità, del carattere feticcio delle merci e delle
trasformazioni sociali e urbanistiche di questa “capitale del diciannovesimo
secolo”. Sul tema della deriva lo scrittore svizzero Robert Walser ci ha poi lasciato
pagine stimolanti. Ne La passeggiata (1917),
descrizione di una gita di una intera giornata nella periferia e nella campagna
della regione del Seeland, egli presentò ai suoi lettori una esperienza
fenomenologica completa. Nel suo incedere egli attraversò luoghi ordinari,
incontrò persone con le quali si intrattenne per brevi colloqui, osservò il
paesaggio, descrisse i cambiamenti di atmosfera e le variazioni del suo umore. Recentemente
l’architetto romano Francesco Careri ha attualizzato questo genere di esperienze
e teorizzato il metodo della deriva quale strumento euristico e progettuale.
Egli promuove quella che chiama la “transurbanza” nei vuoti della città diffusa, percorso erratico che permette di entrare in relazione con i
“Territori Attuali” delle periferie romane. Dunque, sia esso svolto in modo
intenzionale o per semplice necessità di spostamento, il percorrere una via va
ben al di là del trasferirsi da un punto A
a un punto B divenendo una forma di esperienza
estetica e fenomenologica. Camminare può forse permetterci di rinnovare gli
interrogativi sulla inafferrabile città contemporanea?
Ogni tecnica di trasporto porta in sé un paesaggio
Ma naturalmente non ci si sposta solo a piedi, ci si può avvalere di
mezzi che amplificano le potenzialità della nostra mobilità. La bicicletta, ad
esempio, che Marc Augé lega alle sue scoperte giovanili, è un oggetto prodotto
da una tecnologia relativamente semplice capace di trasformare la nostra forza muscolare
in forza cinetica. Il movimento e la velocità connessi con i mezzi di
trasporto, la tecnologia che li governano, “il modo di fare sentirsi e
reperirsi” portano con sé un paesaggio. Sono quei paesaggi che Marc Desportes
chiama “paesaggi della tecnica”. Il viaggio a piedi, ma pure a cavallo, in
carrozza o in bicicletta, costituiva un’esperienza ricca e aperta sul mondo
circostante, in diretto contatto con le cose ma l’arrivo del viaggio in
ferrovia rappresentò una completa rottura con le esperienze precedenti. La nuova
tecnica ferroviaria determina le condizioni del viaggio. Un treno non è altro
che una macchina in grado di muoversi su una struttura rigida e lineare (i
binari) che si impone sulle morfologie del territorio che attraversa riducendo
così l’attrito al minimo. La microfisica del treno e la macrofisica dei binari
contribuiscono a costituire il sistema ferroviario. Il viaggio in ferrovia
propone un singolare connubio tra la dinamicità esterna e la staticità interna.
Dal finestrino il viaggiatore assiste alla creazione di un vero e proprio
spettacolo cinetico. Il paesaggio che il viaggiatore osserva, inquadrato da una
finestra – come nei dipinti quattro-cinquecenteschi della scuola fiamminga - si
dipana e si compone costantemente a lato del sedile. Sparisce il primo piano che
lascia il posto a ciò che si colloca sullo sfondo. Una volta fissata,
l‘immagine permane per un breve momento, poi si stira, e infine si sottrae allo
sguardo sostituita da una nuova scena. Diventa allora estremamente difficile
cogliere i dettagli del paesaggio. L’occhio deve essere più attento, l’apparato
percettivo deve registrare ed elaborare una grande quantità di impressioni
sensoriali. Ciò vale anche per le moderne ferrovie.
Una grande
rivoluzione nelle modalità di osservare e fruire il territorio si presenta con il
viaggio aereo. L’aereo, a cui Le Corbusier dedica anche un suo libro (Aircraft, 1935), ha profondamente modificato
la natura dell’esperienza geografica della Terra. L’aeroplano, ricorda Le
Corbusier, “scruta, fa in fretta, non si stanca; di più, si immerge nella
realtà crudele; con il suo occhio
d’aquila penetra la visione della città”. La novità consiste nel fatto che l’aereo mette a disposizione una visione
sinottica che permette di osservare le immobili strutture terrestri in modo
dinamico, e di cambiare scala di osservazione. Il pilota e i suoi passeggeri
possono così individuare le grandi strutture del territorio ma sono pure in
grado di osservare una miriade di dettagli che altrimenti non sarebbero
visibili. Torniamo sulla terra e seguiamo la via dell’autostrada. Come nel caso
della ferrovia, le finalità di questo sistema di trasporti sono costituite dal
completamento del programma di viaggio, quindi dal raggiungimento di un punto nel
minor tempo possibile senza perdersi in inutili derive. L’automobile scorre a
andatura rapida e regolare sul nastro autostradale disegnato e costruito dalla
simulazione ingegneristica. Come mostrato dagli autori di The wiew from the Road (1964), uno studio divenuto classico, Donald
Appleyard, Kevin Lynch e John R. Myer con il viaggio autostradale si compie un’esperienza
dominata dalla dimensione frontale. Ciò che vede il guidatore ai lati del suo
mezzo è meno importante di ciò che si colloca davanti. I paesaggi che scorrono
lateralmente vengono quasi dimenticati (per l’eventuale passeggero la visione è
più libera). In analogia con le immagini in movimento del cinema, il paesaggio
si presenta in modo sequenziale. Il conducente si deve concentrare sulla guida
e sulle principali indicazioni fornite dalla segnaletica. Lo specchietto
retrovisore gli permette di controllare ciò che avviene alle sue spalle. Una
specifica segnalizzazione lo segue lungo tutto il percorso. Alcune volte, indicazioni
meno normalizzate suggeriscono al viaggiatore di dare una rapida occhiata a ciò
che sta attorno e ricordandogli che attraversa la regione tal dei tali, che si
approssima a un sito classificato dall’Unesco, che supera un certo fiume
importante. Le specificità del luogo attraversato entrano fugacemente nell’esperienza
di viaggio al cui centro rimane comunque quel piccolo spazio chiuso in
movimento che è l’automobile che mette i viaggiatori in relazione con il mondo
esterno.
La via crea il paesaggio
Cosa insegna allora lo studio della via? Innanzitutto ci ricorda che il
tema delle infrastrutture legate ai trasporti non può essere circoscritto al,
seppur determinante, aspetto materiale e ingegneristico. L’infrastruttura
attribuisce ai luoghi che attraversa nuovi significati e nuove identità. A
questo proposito, una bella mostra del Museum für Gestaltung Zürich di alcuni
anni fa dal titolo Die Schweizer Autobahn aveva saputo cogliere
la quotidianità di un sistema di trasporti, di un “paesaggio della tecnica”
dallo statuto culturale incerto come quello autostradale. Gli esiti, anche
estetici, dell’edificazione di un sistema di trasporti possono naturalmente essere
diversi. A volte il confronto tra natura e artificio permette di far emergere quei
tratti del paesaggio che precedentemente faticavamo a cogliere. Considerando il
tema dal punto di vista del soggetto, non possiamo assimilare il viaggiatore che
percorre una infrastruttura a una merce trasportata passivamente. Viaggiando i
suoi sensi si attivano, interpretano e costruiscono le immagini del paesaggio. Il
significato di questi luoghi così particolari che sono le vie viene originato
dal viaggiatore medesimo e dalla sua esperienza dello spazio. Se volessimo
considerare i suggerimenti di una possibile antropologia del paesaggio, dovremmo
allora dire che viaggiare è una pratica che va ben al di là della fruizione
passiva di una infrastruttura di trasporto. Viaggiando si fa la strada e viaggiando
si crea il mondo e il paesaggio che lo rappresenta.
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ARCHI, 4/2010
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