Toponimie : eredità ?
[Parte di queste riflessioni sono state pubblicate sulla Revue de Géographie Alpine, nella rubrica Lieux-dits.]
Nella sua pubblicazione, Verso
una teoria geografica della complessità (1988), Angelo Turco definisce il
processo di appropriazione territoriale (la « territorializzazione »)
attraverso tre « momenti » : la denominazione, la reificazione
e la strutturazione. La reificazione, intesa in senso largo, non
si applica solo alla costruzione di stabili o di strade, ma anche ad altri tipi
di utilizzo del territorio, soprattutto in montagna, dove alpeggi e pascoli,
per esempio, sono il risultato della trasformazione e della riproduzione di un
ambiente. La denominazione è, senza
dubbio, uno dei primi atti che un gruppo umano relizza identificando gli
oggetti (e in senso largo, i luoghi) di cui si serve. La strutturazione delle pratiche spaziali si appoggia sulla coerenza esistente
– e fino a che esiste – tra il nome e
gli oggetti. Il toponimo diventa allora un oggetto interessante per la
geografia storica (alpina, per quel che mi concerne) nella misura in cui è un
« resto » che costituiva una territorialità. Tuttavia, si tratta di
una fonte fragile, perché da un lato il suo supporto non è la pietra, ma la
memoria (collettiva o individuale) e, dall’altro, anche quando essa è iscritta
da qualche parte, come sulla carta topografica per esempio, viene deformata dai
criteri propri all’elaborazione della carta.
Nel nostro esempio, questa fragilità della memoria
territoriale è particolarmente visibile quando si confronta il luogo
fotografato con la carta topografica. Questa, anche considerando una superficie
più larga di quella che si potrebbe delimitare a partire dall’immagine, indica
solo due misure d’altitudine e il nome della montagna (Sosto), al quale si può
ancora aggiungere due o tre altri nomi – in italiano – che suggeriscono una
caratteristica generica del terreno (« Boschetto » ;
« Parete di Pino », ecc.). Nel cartello fotografato, la medesima
montagna è invece ricoperta da una quantità fenomenale di nomi (una trentina
sulla parete propriamente detta e più di una cinquantina in tutto) : ogni
angolo porta un nome, espressione della pratica spaziale di una comunità per la
quale anche il più piccolo filo d’erba era vitale, soprattutto per la sua
componente sociale più povera. In queste comunità montane non si esitava a
salire sui luoghi più impervi e pericolosi per tagliare e raccogliere il fieno,
non raramente a rischio della propria vita, come testimoniano i numerosi
ex-voto che possiamo ancora vedere in chiese locali. Questa fotografia è dunque
interessante nella misura in cui ci informa sull’utilizzo dello spazio da parte
di una società (agraria, montana e tradizionale, nel nostro caso) : un
vero e proprio uso capillare. È pure interessante nella misura in cui ci
informa sull’atto di denominazione : un atto essenzialmente funzionale e
pratico (non vi è nessuna misura astratta, come quella metrica alla quale siamo
oggi abituati). Non conosco il significato di tutte le parole, perché qui
abbiamo a che fare con una toponimia vernacolare, ma riconosco alcuni termini
dialettali che sono anche i miei : il nome del luogo riflette la propria
natura, come « Ra Buza », che rimanda ad uno scoscendimento ;
« dul castell » che rimanda ad un castello (e in quel posto vi era,
nel Medio Evo, una torre appartenente ad un signore di un’altra valle), o
ancora, termini come « Pareit » e « Sott Pareit », dove il
termine « Sott » indica la posizione (sotto), ecc. In altre parole,
il nome informa su una società nella quale la conoscenza è strettamente legata
alla pratica. Si sa perché si fa : colui che non è del luogo (del
gruppo !) non ne conosce il nome perché non lo pratica.
Tutta questa toponimia non esiste praticamente più oggi perché le
pratiche che la sottendevano non esistono più. Ma questi nomi sono fantasmi che
informano sull’uso del territorio e questo cartello ha tanto più valore in
quanto qualcuno ha voluto ricordarsi della ricchezza umana di questo pezzo di
spazio, in altre parole, ha voluto ricordarsi della sua territorializzazione. «La territorializzazione è dunque
un grande processo, in virtù del quale lo spazio incorpora valore
antropologico ; quest’ultimo non si aggiunge alle proprietà fisiche, ma le
assorbe, le rimodella e le rimette in circolo in forme e con funzioni variamente
culturalizzate […]» scrive Angelo Turco. Il nome è l’espressione del valore
antropologico.
Ma c’è anche di più :
« Da bambino, nelle mie scorribande toponomastiche che mi lasciavano senza fiato davanti all'atlante, giunsi alla conclusione che se quei favolosi nomi fossero scomparsi dalla carta, i luoghi stessi sarebbero scomparsi. Era un'intuizione corretta: un luogo senza nome cessa di esistere. Per questo sono ancora attaccato alle carte: servono a impedire la cancellazione della memoria. […]Un popolo senza senso della geografia è destinato a uscire anche dalla storia. (Rumiz, p. 312) »
Quando Rumiz (2011, Milano, Feltrinelli) parla delle
vecchie carte è nel senso del supporto
di memoria che esse possono rappresentare, perché non è tanto alle carte che si
riferisce, ma ai nomi iscritti su di esse. Far parlare la toponimia
vernacolare, oggi, significa resistere alla morale dominante che, col pretesto
di « ridare » alla natura certi spazi montani, cancella la storia
delle loro popolazioni. Così facendo, essa maschera il fatto che ogni spazio
detto naturale – soprattutto oggi – è uno spazio umanizzato. Ho avuto modo di
vedere questo atto di resistenza implicita percorrendo la Val Cama, all’entrata
sud della Mesolcina : in questa valle, trasformata in riserva forestale
(dove quindi, in linea di principio, ne è bandito l’uso da parte degli esseri
umani), si scoprono, lungo il sentiero, cartelli che indicano il nome del luogo
e una breve spiegazione sulla sua origine (etimologica, fattuale o
leggendaria). Qualcuno, in maniera modesta certo, ha voluto anche qui ricordare
il valore antropologico nascosto dietro lo spazio e mantenerne la memoria. I
« resti » (materiali o immateriali) della memoria territoriale non
sono il territorio, bensì i segni di un territorio : sta a noi decifrarli
e assegnar loro un senso. Possono così diventare terreno d’incontro tra la geografia,
il turista e l’abitante attraverso uno scambio basato sul rispetto reciproco o,
più semplicemente, sul rispetto delle culture (a cominciare da quelle –
nostrane – che ci hanno preceduto nel tempo).
Riferimenti
Mauro CORONA,2008, I
fantasmi di pietra, Milano, Mondadori.
Marcel ROUBAULT, 1973, Les
catastrofi naturali sono prevedibili, Alluvioni, terremoti, frane, valanghe,
Piccola Biblioteca Einaudi 208, Torino, Einaudi.
Paolo RUMIZ, 2011, La
leggenda dei monti naviganti, Universale Economica Feltrinelli, Milano,
Feltrinelli.
Angelo TURCO, 1988, Verso
una teoria geografica della complessità , Milano, Unicopli.