vendredi 16 novembre 2012




Toponimie : eredità ?
[Parte di queste riflessioni sono state pubblicate sulla Revue de Géographie Alpine, nella rubrica Lieux-dits.]




 Nel 2008, Mauro Corona pubblica un libro il cui titolo è I fantasmi di pietra. In questo suo libro racconta storie di vita del suo villaggio, Erto, nella regione del Vajont, distrutto dall’alluvione del 1963 e praticamente abbandonato da allora. (cf. anche : Roubault Marcel, 1973). Con il pretesto di una visita sui luoghi della sua infanzia, di cui non restano che le rovine delle case e delle piazze, l’autore si sofferma in questo o in quel luogo e racconta : racconta spezzoni di una vita passata i cui protagonisti sono gente ordinaria della montagna. Incrocia i resti di pietra, dove la traccia delle intemperie si mescola con la vegetazione spontanea che a volte racchiude queste case e a volte le penetra dall’interno. Queste pietre sono i fantasmi di un passato che vive nella sua memoria, quello della sua adolescenza e della sua gioventù. Ad ogni angolo di strada, i fantasmi prendono la forma di un ricordo preciso (avventure dell’adolescente che scopre le prime spinte di testosterone, avventure del giovane bracconiere e della sua banda di compagni, ecc.). Insomma, dietro queste pietre, si cela una vita di villaggio di montagna che non è facile capire se non la si è condivisa e che, oggi, può anche scandalizzare l’anima verde dei cittadini benpensanti che siamo diventati. La fotografia qui sopra non è una pietra  di fantasmi da estrarre dal passato, ma mi sembra poter assumere una funzione equivalente, o per lo meno evocarla. E’ uno spezzone di memoria del territorio. Mi spiego !

Nella sua pubblicazione, Verso una teoria geografica della complessità (1988), Angelo Turco definisce il processo di appropriazione territoriale (la « territorializzazione ») attraverso tre « momenti » : la denominazione, la reificazione e la strutturazione. La reificazione, intesa in senso largo, non si applica solo alla costruzione di stabili o di strade, ma anche ad altri tipi di utilizzo del territorio, soprattutto in montagna, dove alpeggi e pascoli, per esempio, sono il risultato della trasformazione e della riproduzione di un ambiente. La denominazione è, senza dubbio, uno dei primi atti che un gruppo umano relizza identificando gli oggetti (e in senso largo, i luoghi) di cui si serve. La strutturazione delle pratiche spaziali si appoggia sulla coerenza esistente  – e fino a che esiste – tra il nome e gli oggetti. Il toponimo diventa allora un oggetto interessante per la geografia storica (alpina, per quel che mi concerne) nella misura in cui è un « resto » che costituiva una territorialità. Tuttavia, si tratta di una fonte fragile, perché da un lato il suo supporto non è la pietra, ma la memoria (collettiva o individuale) e, dall’altro, anche quando essa è iscritta da qualche parte, come sulla carta topografica per esempio, viene deformata dai criteri propri all’elaborazione della carta.

Nel nostro esempio, questa fragilità della memoria territoriale è particolarmente visibile quando si confronta il luogo fotografato con la carta topografica. Questa, anche considerando una superficie più larga di quella che si potrebbe delimitare a partire dall’immagine, indica solo due misure d’altitudine e il nome della montagna (Sosto), al quale si può ancora aggiungere due o tre altri nomi – in italiano – che suggeriscono una caratteristica generica del terreno (« Boschetto » ; « Parete di Pino », ecc.). Nel cartello fotografato, la medesima montagna è invece ricoperta da una quantità fenomenale di nomi (una trentina sulla parete propriamente detta e più di una cinquantina in tutto) : ogni angolo porta un nome, espressione della pratica spaziale di una comunità per la quale anche il più piccolo filo d’erba era vitale, soprattutto per la sua componente sociale più povera. In queste comunità montane non si esitava a salire sui luoghi più impervi e pericolosi per tagliare e raccogliere il fieno, non raramente a rischio della propria vita, come testimoniano i numerosi ex-voto che possiamo ancora vedere in chiese locali. Questa fotografia è dunque interessante nella misura in cui ci informa sull’utilizzo dello spazio da parte di una società (agraria, montana e tradizionale, nel nostro caso) : un vero e proprio uso capillare. È pure interessante nella misura in cui ci informa sull’atto di denominazione : un atto essenzialmente funzionale e pratico (non vi è nessuna misura astratta, come quella metrica alla quale siamo oggi abituati). Non conosco il significato di tutte le parole, perché qui abbiamo a che fare con una toponimia vernacolare, ma riconosco alcuni termini dialettali che sono anche i miei : il nome del luogo riflette la propria natura, come « Ra Buza », che rimanda ad uno scoscendimento ; « dul castell » che rimanda ad un castello (e in quel posto vi era, nel Medio Evo, una torre appartenente ad un signore di un’altra valle), o ancora, termini come « Pareit » e « Sott Pareit », dove il termine « Sott » indica la posizione (sotto), ecc. In altre parole, il nome informa su una società nella quale la conoscenza è strettamente legata alla pratica. Si sa perché si fa : colui che non è del luogo (del gruppo !) non ne conosce il nome perché non lo pratica.

Tutta questa toponimia non esiste praticamente più oggi perché le pratiche che la sottendevano non esistono più. Ma questi nomi sono fantasmi che informano sull’uso del territorio e questo cartello ha tanto più valore in quanto qualcuno ha voluto ricordarsi della ricchezza umana di questo pezzo di spazio, in altre parole, ha voluto ricordarsi della sua territorializzazione. «La territorializzazione è dunque un grande processo, in virtù del quale lo spazio incorpora valore antropologico ; quest’ultimo non si aggiunge alle proprietà fisiche, ma le assorbe, le rimodella e le rimette in circolo in forme e con funzioni variamente culturalizzate […]» scrive Angelo Turco. Il nome è l’espressione del valore antropologico. 

Ma c’è anche di più :

« Da bambino, nelle mie scorribande toponomastiche che mi lasciavano senza fiato davanti all'atlante, giunsi alla conclusione che se quei favolosi nomi fossero scomparsi dalla carta, i luoghi stessi sarebbero scomparsi. Era un'intuizione corretta: un luogo senza nome cessa di esistere. Per questo sono ancora attaccato alle carte: servono a impedire la cancellazione della memoria. […]Un popolo senza senso della  geografia  è destinato a uscire anche dalla storia.  (Rumiz, p. 312) »
Quando Rumiz (2011, Milano, Feltrinelli) parla delle vecchie  carte è nel senso del supporto di memoria che esse possono rappresentare, perché non è tanto alle carte che si riferisce, ma ai nomi iscritti su di esse. Far parlare la toponimia vernacolare, oggi, significa resistere alla morale dominante che, col pretesto di « ridare » alla natura certi spazi montani, cancella la storia delle loro popolazioni. Così facendo, essa maschera il fatto che ogni spazio detto naturale – soprattutto oggi – è uno spazio umanizzato. Ho avuto modo di vedere questo atto di resistenza implicita percorrendo la Val Cama, all’entrata sud della Mesolcina : in questa valle, trasformata in riserva forestale (dove quindi, in linea di principio, ne è bandito l’uso da parte degli esseri umani), si scoprono, lungo il sentiero, cartelli che indicano il nome del luogo e una breve spiegazione sulla sua origine (etimologica, fattuale o leggendaria). Qualcuno, in maniera modesta certo, ha voluto anche qui ricordare il valore antropologico nascosto dietro lo spazio e mantenerne la memoria. I « resti » (materiali o immateriali) della memoria territoriale non sono il territorio, bensì i segni di un territorio : sta a noi decifrarli e assegnar loro un senso. Possono così  diventare terreno d’incontro tra la geografia, il turista e l’abitante attraverso uno scambio basato sul rispetto reciproco o, più semplicemente, sul rispetto delle culture (a cominciare da quelle – nostrane – che ci hanno preceduto nel tempo).

Riferimenti

Mauro CORONA,2008, I fantasmi di pietra, Milano, Mondadori.

Marcel ROUBAULT, 1973, Les catastrofi naturali sono prevedibili, Alluvioni, terremoti, frane, valanghe, Piccola Biblioteca Einaudi 208, Torino, Einaudi.

Paolo RUMIZ, 2011, La leggenda dei monti naviganti, Universale Economica Feltrinelli, Milano, Feltrinelli.

Angelo TURCO, 1988, Verso una teoria geografica della complessità , Milano, Unicopli.





vendredi 2 novembre 2012

Il fiume Ticino


Promemoria per un viaggio prossimo


Ci stavo proprio pensando ora : in fondo, quel fiume mi sta attorno quasi da quando son nato : è stato punto d’incontro per giochi infantili e adolescenziali, complice di amori o compagno di avventure giovanili, sentiero liquido per imparare e praticare la pesca. Ma solo ora mi dico che non mi è ancora servito da pretesto per un’escursione vera e propria. Gianni Celati, nel suo « Verso la foce » (Universale Economica Feltrinelli, 2011) viaggia lungo il Po ; Paolo Rumiz, nella sua « Leggenda dei monti naviganti » (Universale Economica Feltrinelli, 2011)  ha percorso dapprima le Alpi e poi gli Appennini : perché allora non tentare – a tappe – di domandare a questo fiume di essermi da guida dalle sue sorgenti alla foce (o l’inverso) ?

Tanto per mettere le basi di un probabile futuro viaggio lungo questo fiume, eccone una prima esplorazione sotto forma di note più o meno strutturate. Queste note, prese qualche tempo fà, sono poi sfociate in un testo più ristretto per la voce « fiume Ticino » del Dizionario Storico della Svizzera, a sua volta condizionato per l’uso proprio di quella pubblicazione.

Il suo percorso

Il fiume Ticino (il cui nome, tasín, tesín, di origine prelatina, significa semplicemente … corso d’acqua : termine ancora in uso in documenti del XIIIo secolo) attraversa da nord a sud l’omonimo Cantone, il cui toponimo viene attribuito nel 1798). Dopo un percorso di circa 90 chilometri entra nel Lago Verbano in quella che oggi è la zona paludosa protetta delle Bolle. A Sesto Calende, in Provincia di Varese (Italia) il Ticino esce dalle acque lacustri e riprende la sua apparenza di fiume per 110 chilometri prima di congiungersi con il Po, fiume piemontese e padano che lo accoglie nelle sue acque a Linarolo, sotto Pavia, per portarlo con sè fino al mare.

Come spesso capita nelle Alpi, anche per il fiume Ticino non vi è un solo ed unico  punto di origine. La sua vita inizia sul colle della Novena, passo che collega il Canton Vallese con il Canton Ticino, ad un altitudine di 2'400 metri sul mare. Dopo aver percorso la Valle Bedretto, incontra, ad Airolo, il suo secondo ramo che scende dalla valle della Tremola e la cui origine si trova nei pressi del passo del San Gottardo, colle ticinese che collega i due cantoni del Ticino e di Uri. Da Airolo a Rodi-Fiesso, il fiume trova un tratto più riposante, disturbato solo dalla strettoia dello Stalvedro. A Rodi, dove una volta viandanti e merci incontravano il Dazio Grande, il nostro fiume precipita nella gola del Piottino. Ritrovata una pendenza più regolare, attraversa Faido continuando verso Lavorgo dove affronta, di nuovo, un paesaggio più stretto e impervio immergendosi quindi, ai piedi di una frana preistorica (staccatasi probabilmente dal fianco sinistro) nella gola della Biaschina. Poco più sotto incontra la località di Giornico e, da qui in poi, uscito dalle montagne del massiccio del Gottardo, non troverà più ostacoli maggiori, fino alla sua entrata nel lago, 46 chilometri più a valle.
I suoi principali affluenti, al di là degli innumerevoli ruscelli che scendono dai versanti della valle principale e dalle sue valli laterali, sono essenzialmente tre :
- il fiume Brenno – che anticamente portava anch’esso il nome di tesígn de Bregn e che autori dell’Ottocento non esitavano a considerare il terzo ramo d’origine del fiume – alle porte di Biasca, dove  termina la parte montana propriamente detta del nostro fiume ;
- il fiume Moesa, che scende dal passo grigionese del San Bernardino immettendosi nel Ticino alle porte di Bellinzona ;
- il fiume Morobbia, a sud di quella città, da dove il Ticino diventa un vero e proprio fiume di pianura inoltrandosi sul Piano di Magadino.

Il suo profilo.

Il suo percorso ticinese, snodandosi su una novantina di chilometri dal colle della Novena a 2'400 metri circa di altitudine ai 193 metri del Lago Maggiore, ha quindi una pendenza generale del 25 per mille. Questa pendenza media, che sottolinea il carattere montano del fiume, non deve però trarre in inganno perché il corso d’acqua ha un profilo molto più variato, passando progressivamente, ma con salti successivi, dalla montagna al piano. Dal passo della Novena alla confluenza con la Val Prosa, alla base del colle, il passaggio dai 2'400 metri ai 1'940 su poco più di 3 km si effettua con una pendenza (la massima) del 163 per mille. In valle Bedretto, con i suoi 14 chilometri, il fiume arriva alle porte di Airolo con una pendenza media del 55 per mille. La Valle Leventina viene allora attraversata con pendenze varianti tra il 15 e il 23 per mille : 17 per mille su 14 chilometri da Airolo a Rodi ; 23 per mille sulla decina di chilometri del tratto che passando da Faido porta a Lavorgo e 15 per mille sugli 11 chilometri che separano il percorso dal Ticinetto (affluente proveniente da Chironico sul versante destro,  prima di Giornico) a Biasca. Fra le tre parti della Leventina (Alta, Media e Bassa valle) la topografia impone due salti notevoli : 98 per mille lungo poco più di un chilometro nel Piottino e 65 per mille su poco più di 2 chilometri nella Biaschina. Abbandonato il profilo montano propriamente detto, dopo la congiunzione con il fiume Brenno, il Ticino diminuisce progressivamente il suo profilo : 3,1 per mille sui 18 chilometri che separano il Brenno dalla Morobbia ; 2,50 per mille lungo i 6 chilometri e mezzo che portano alla Moesa ; 2,3 per mille sui 10 chilometri e mezzo da qui al lago.

Il fiume risorsa

Nel passato (medievale soprattutto), i traffici commerciali evitavano le gole del Piottino e della Biaschina seguendo rispettivamente la via che da Prato saliva a Dalpe per poi ridiscendere a Faido e quella che passava da Chironico, Grumo e Altirolo, prima di raggiungere Giornico. Sarà nel corso del XVI secolo che gli Urani apriranno una via attraverso le due gole (prima il Piottino, istituendo quel che oggi chiamiamo ancora il Dazio Grande e più tardi la Biaschina) (cf. Sargenti, 1994)

Oggi il fiume Ticino riesce ancora, a volte, a mettere in allarme popolazione e autorità (come pure continuerà a farlo nel futuro), tuttavia siamo lontani dal suo percorso disordinato ed impetuoso, ancora caratteristico della fine del XIXo secolo da quando le sue acque sono state progressivamente « addomesticate », sia attraverso i lavori di canalizzazione che attraverso il controllo dei flussi avvenuto con le centrali idroelettriche. Nel 1868, la portata massima misurata a Bellinzona fu di 2'500 metri cubi al secondo (Knapp, Borel, 1908) : i dati odierni (osservazioni dal 1921 al 2008) forniscono valori estremi più bassi, con un massimo eccezionale di 1500 metri cubi nel 1927. Nel medesimo periodo, sempre a Bellinzona, la portata media è di 68 metri cubi al secondo, mentre quella minima e quella massima sono state, rispettivamente, di 33 e 107 metri cubi al secondo. Il fiume Ticino, nella sua parte ticinese, non è mai stato navigabile, tuttalpiù usato ancora nella prima metà dell’Ottocento, per il trasporto galleggiato del legname legato a zattere (detto « flottazione ») a partire da Giornico-Bodio durante lo sciogliersi delle nevi.

Il fiume entra nella modernità contemporanea nel corso del XIXo secolo, dapprima con la sua sofferta correzione e poi con l’uso idroelettrico delle sue acque. Le prime proposte di correzione del percorso del Ticino sorgono nel primo decennio dell’Ottocento. Nel 1875 viene inaugurata la linea ferroviaria di Locarno, rendendo così necessario mettere fine alle disordinate divagazioni del corso d’acqua. Nel 1885 viene presentato un progetto, il cui finanziamento pubblico verrà bocciato in votazione popolare. Nel 1886, in risposta alla bocciatura viene creata la Fondazione del Consorzio Correzione Fiume Ticino e nel 1888 iniziano i lavori che dureranno fino al 1939 con un investimento di più di 11 milioni di franchi. Se la correzione del fiume può essere considerata terminata, nuove valutazioni e nuove norme di sicurezza impongono sempre nuovi adattamenti soprattutto davanti alle trasformazioni di tutta la zona. L’incanalamento del fiume aveva permesso di trasformare il Piano di Magadino in una nuova risorsa recuperando terreni per un’agricoltura moderna, ma questi stessi terreni subiscono, oggi,  la concorrenza delle altre attività insediative (abitazioni, vie di comunicazione, centri commerciali, ecc.).

Se non l’acqua del fiume direttamente, quelle dei suoi affluenti più montani sono state (e lo sono tuttora) oggetto di sfruttamento tramite prelievi per la produzione dell’energia idroelettrica. Nel Cantone Ticino (cf. L’Ambiente in Ticino, 2003 pp. 102-104) si contano ben 118 punti di prelievo di cui 114 nel Sopraceneri : di questi più della metà si situa nel bacino idrografico del fiume Ticino e l’importanza di questi prelievi è visibile sul tratto leventinese del fiume fino a Personico. Il caso del Brenno, il primo grosso affluente è interessante perché illustra il peso dei prelievi : prima della costruzione e della messa in funzione degli impianti OFIBLE (Officine idroelettriche Blenio) : la portata « naturale » era di circa 18 metri cubi al secondo e dopo gli inizi degli anni Sessanta, scese a 5 metri cubi al secondo. L’acqua risorsa idroelettrica fondamentale per la vita economica viene a scontrarsi, oggi, con l’acqua risorsa per l’ambiente e la vita sociale (esercizio della pesca, per esempio). A titolo di esempio, alla presa di Rodi, il deflusso minimo garantito dall’Azienda Elettrica Ticinese (cf. L’ambiente in Ticino, tabella 2.4 p. 106) è di 300-500 litri al secondo : poco più sopra, a Piotta, la stazione di rilevamento misura per il periodo 1969-2008 una portata media annua di 2,31 metri cubi al secondo (la più piccola, nel 2006, fu di 1,09 metri cubi e la più grande, di 6,14 metri cubi nel 1978). La prima centrale fu quella della Piumogna,  affluente che raggiunge il Ticino a Faido, in Valle Leventina, costruita nel 1889. A seguito del grande sviluppo degli anni che hanno seguito la Seconda guerra, oggi, sul percorso del fiume vi son ben 14 centrali idroelettriche che producono circa 748 MegaWatt, corrispondenti alla metà della produzione e delle centrali cantonali.

Se i deflussi minimi sono sempre stati oggetto di discussioni e periodicamente riproposti al tavolo delle concessioni, la coscienza ambientalistica odierna solleva un altro problema inerente la gestione del flusso : la sua variazione ! I repentini aumenti e diminuzioni dei rilasci per motivi legati al funzionamento degli impianti idroelettrici modifica le condizioni ambientali per la fauna ittica a valle dei punti di restituzione. Questi deflussi massimi, improvvisi, possono minacciare le speci presenti e le loro condizioni di riproduzione.

Il fiume Ticino, come la maggior parte dei fiumi svizzeri, è un elemento naturale sempre più immerso in un universo urbanizzato : da risorsa economica importante, diventa sempre più elemento strutturale nell’organizzazione del territorio, soprattutto del Sopraceneri.

Bibliografia :

Knapp Ch., Borel M., 1908, Dictionnaire géographique de la Suisse, Neuchâtel, Attinger Frères Editeurs, pp. 645-650.
Franscini St., 1987 (1837) La Svizzera Italiana, (a cura di V. Gilardoni), Bellinzona, Edizioni Casagrande, Vol. Primo, p. 100.
Lavizzari L., 1988 (1859-1863), Escursioni nel Cantone Ticino, (a cura di A. Soldini e C. Agliati), Locarno, Armando Dadò Editore, pp. 285-295.
Vetterli L., 2005, « Il problema dei deflussi massimi », in Pro Natura Ticino No. 3, gennaio 2005 pp. 3-5.
Gemnetti e Pedroli, 1963, Il Cantone Ticino, Bellinzona, Istituto Editoriale Ticinese, 110 p.
Minor H.-E. e Hager W.H., 2004, Ingegneria fluviale in Svizzera, Sviluppo e prospettive, Vol. 6, Società dell’arte e dell’ingegneria civile, Zurigo, Stäubli AG, pp. 74-91.
Buratti V., Fumagalli G., Mavero F., 2003, Ticino, il fiume azzurro, Oggiono-Lecco (Italia), Cattaneo Editore, pp. 177-179.
Cantone Ticino, 2003, L’ambiente in Ticino, Vol. 1 Stato e evoluzione, Rapporto cantonale sulla protezione dell’ambiente, Dipartimento del Territorio, Divisione dell’Ambiente, Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo, pp. 102-104.
Lurati O., 1976, Dialetto e italiano regionale nella Svizzera italiana, Lugano, Banca Solari & Blum S.A. Lugano, pp. 90-91.
Cantone Ticino, Ufficio dell’energia, www.ti.ch/energia, cartine diverse e dati vari.
Sargenti W., 1994 (1963), Geografia del Cantone Ticino, Fascicolo 2 : Quaderni per lo studio della posizione, Quaderno No. 2 : La Valle del Ticino, Bellinzona, Edizioni Casagrande.



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mercredi 24 octobre 2012

Valle di Cama


Lago di Cama : briciole di memoria territoriale



Il contesto è quello della solita banda di « soci » che ogni anno si ritrova per una camminata, una notte di racconti, ricordi e canzoni, e uno o due buoni pasti. Anche quest’anno le cose sono andate così e, come ogni anno, un luogo diverso : questa volta tocca al Lago di Cama. Un laghetto naturale (nella misura in cui non è stato cinturato da un muro convesso di cemento) in fondo alla Val Cama. E come il nome indica, si parte dalla località mesolcinese di … Cama.

Già prima di arrivare in quella località, qualcosa colpisce : lungo la strada per recarsi a Cama (a volte accanto, a volte sotto le ruote) scorrono i binari di una ferrovia. E’ la vecchia BM, la Bellinzona-Mesocco, smantellata come tante altre, spinte all’obsolescenza dallo sviluppo automobilistico e di cui restava, fino a poco fà, solo un segmento, da Castione a Cama. Ma anche quest’ultimo pezzo, oggi, è diventato silenzioso. E’ sicuramente inutile farsi illusioni nostalgiche, perché il traffico passeggeri oggi sostituito dall’autopostale presenta pure i suoi vantaggi, non da ultimo quello di partire vicino alla porta di casa. Al di là della nostalgia (a cui tutti si ha diritto, perché è un sentimento umano) resta il fatto che il mantenimento e l’ammodernamento delle linee secondarie (anche la BM quindi) avrebbero potuto rappresentare un supporto infrastrutturale per la mobilità urbana degli agglomerati. E’ sicuramente facile, col senno di poi,  dire che si sarebbe dovuto pensarci, ma l’attuale proposta federale di riflettere sullo smantellamento di 175 ferrovie secondarie (locali, avrei voglia di dire) sembra mostrare che neppure oggi – che  gli agglomerati sono la realtà presente nella quale viviamo – si sia preso coscienza dell’importanza della mobilità ferroviaria (ferrovie a diversi scartamenti, tram, ecc.). E’ evidente, poi, che prendendo in considerazione le attuali situazioni finanziarie di Confederazione e Cantoni, aggiunte ad un clima politico imperniato alla chiusura e all’opposizione a qualsiasi progetto, alcune di quelle linee sono veramente destinate a sparire. Tuttavia, la proposta ha un pregio : quello di obbligare a riflettere in termini di mobilità urbana, considerando tra l’altro che un trenino di campagna fa parte anch’esso di un modo di vita urbano (pendolarismo, turismo, ecc.). L’argomento redditività non è da sottovalutare, siamo d’accordo: ha senso infatti mantenere in piedi un’infrastruttura pagata in (buona) parte anche da chi non la usa ? Ma non bisogna dimenticare la domanda opposta : quante sono, nelle città o negli agglomerati,  le linee urbane propriamente dette che non sono deficitarie o che raggiungono il 50 % di redditività? Anche qui, una parte dei costi viene sostenuta da chi non è utente e tanto meno abitante. Questa prima parte del XXIo secolo è quella dei trasporti collettivi nella maggior parte dei flussi di mobilità individuale (fosse anche solo per il costo del carburante) e sarebbe ora che chi ne ha la reponsabilità cominciasse a progettare in questi termini.  Sia la mobilità quotidiana della popolazione che la popolazione stessa sono destinate ad aumentare nei decenni a venire, e non saranno le ossessioni antidemografiche, che si stanno manifestando in misura diversa in tutti i partiti politici, ad impedire queste crescite. E’ in questi termini che dovrebbero essere analizzati i 175 tronchi ferroviari nel mirino della Confederazione : almeno così, anche la scomparsa della BM sarà servita a qualcosa. Ma torniamo sui nostri passi.

Ci si infila quindi sul sentiero per affrontare i trecento (primi) metri di dislivello fatti praticamente tutti a scalini prima di entrare decisamente nella valle vera e propria. Ma anche qui non si sfugge alla ferrovia : numerose sono le traversine metalliche che servono a sostenere e a rinforzare gli scalini. Riciclaggio intelligente, certo, ma anche scampoli di memoria sparsi nel territorio. Non sono andato nei dettagli, ma non sarei sorpreso di trovare nelle cascine di quei monti altri pezzi di ferrovia, come pure negli orti degli abitanti dei villaggi sottostanti.

Un fruscío attira l’attenzione. E’ una lucertola che sta pranzando : dalla bocca sporge un lombrico quasi più grande di quel rettile preistorico. Si resta un bel momento ad osservarla, tento qualche fotografia, ma manca una buona luce. Il tempo di piazzare il treppiedi e la lucertola se ne andrebbe. Allora provo a mano libera : il risultato è pessimo. Pazienza. Allora si continua la salita.

Camminando mi viene in mente una notizia di cronaca letta due giorni prima, nella quale si raccontava dell’incidente dove avevano perso la vita un guardiacaccia in pensione e il suo amico lungo un banale sentiero di montagna in seguito alla caduta di un sasso. Non ho finito di raccontare che davanti a noi scopriamo un sasso appoggiato alla ringhiera del sentiero : guardando sul lato opposto si scopre la recentissima ferita nella roccia da dove si era staccato e altre fessure pronte a dar piena licenza agli effetti gravitazionali. La verticalità non è solo un concetto e il sentiero è una traccia incisa nel contesto della verticalità. Tutto quel che ci sta attorno, in questo bosco dove piante e pietre si mescolano, ci ricorda la dinamica della verticalità e il sasso, fresco di caduta, sottolinea il fatto che siamo immersi nella continuità del tempo. E’ strano come solo la presenza di qualcosa « fuori posto » ci permetta di capire che la natura non è a-temporale. Un sentiero sopra un sasso è segno di stabilità : un sasso sopra un sentiero introduce una dissonanza, un disordine che rivela l’instabilità delle cose. In un certo senso, quel masso fresco di caduta è una metafora del mondo e dell'attualità nella quale viviamo, imperniata al rifiuto sistematico (o semplicemente alla volontà di rifiuto) delle trasformazioni.  Un rifiuto puramente declamatorio, perché se fosse possibile fermarsi, avremmo inventato l’eternità.  

Lungo il sentiero, ad intervalli irregolari, appaiono piccole targhette che ricordano il toponimo del luogo sul quale si sta transitando, fornendo una breve spiegazione dell’origine o del perché attraverso l’etimologia o l’allusione a fatti avvenuti o leggendari. Ci troviamo così davanti ad una toponimia vernacolare, spezzoni di memoria locale che qualcuno ha voluto mettere in rilievo per mantenere presente parte di quella pratica della montagna ormai sparita. Non potendo fermare il tempo, possiamo almeno creare un legame di continuità tra chi, prima, viveva di (e in) quella montagna e chi, oggi, vive con quella montagna. Questa continuità è interessante nella misura in cui rappresenterrebbe una forma di resistenza contro l’oblío, oggi rafforzato dal fatto che  questa foresta è diventata una riserva, uno spazio cioè dove lo sfruttamento da parte degli esseri umani è bandito. Sparendo l’uso di un territorio, sparisce pure a lungo andare anche il nome. Marcare i luoghi con i nomi (locali) di origine (anche se si tratta dell’ultimo toponimo dopo una lunga trasformazione nel tempo o anche solo del risultato di una leggenda) è una maniera per ricordare quanto l’ambiente sia legato alla storia delle società e quanto l’ambiente « naturale » sia sempre una scelta sociale. «La rose d’autrefois existe en tant que nom, il ne nous reste que des noms nus», così termina il film « Le nom de la rose » di Jean-Jacques Annaud citando la fine dell’omonimo libro di Umberto Eco. Non saprei quale senso esatto Eco volesse dare a questa frase, ma nel nostro contesto essa si applica bene alla toponimia, soprattutto a quella vernacolare. Il toponimo espressione di una pratica territoriale ad un dato momento della storia è il nome di quella pratica. Oggi questa è sparita e a noi rimane solo un nome : un nome nudo. Marcandone la presenza nello spazio, lo rivestiamo impedendone lo scioglimento nell’oblío. Come per i vestiti però, non tutti gli abiti sono adatti : resta quindi sempre aperto il problema dell’uso che si vuol fare di questi « ricordi ».

E per finire, il solo piacere degli occhi e della camminata.













jeudi 1 mars 2012

Utili disordinati riferimenti

David Le Breton ha scritto molte cose interessanti e tra queste un libro che mi accingo a leggere, "Eloge de la marche" (versione italiana: Il Mondo a piedi. Elogio della marcia" da Feltrinelli ?). Posso comunque segnalare un suo articolo che rientra bene, magari anche solo parzialmente, nelle preoccupazioni generali di questo diario elettronico. L'articolo può essere letto su:

http://www.sbt.ti.ch/bcb/home/manifestazioni/popup/testi/marche_eloge.pdf

Buona lettura.


vendredi 24 février 2012

L'incontro con i luoghi: l'esempio di Lisbona


L’incontro con i luoghi

L'incontro con i luoghi non è mai spontaneo: è sempre costruito e in costruzione. Costruito, perché la relazione ha sempre almeno due poli: da un lato, il viaggiatore e, dall'altro, il territorio del suo incontro. Il viaggiatore è sempre "pre-parato" sul luogo oggetto della sua visita: sia per via delle informazioni a sua disposizione prima della partenza, sia per le sue esperienze precedenti, sia per i suoi pregiudizi, sia, ancora, per via della propria ignoranza. Ma l'incontro è anche, e sempre, in costruzione, perché il soggiorno genera la necessità di completare le informazioni mancanti o, più semplicemente, perché il ricordo ricompone costantemente e periodicamente l'esperienza del viaggio attraverso il filtro della memoria.
"L'ombra del Vento non esiste solo per noi, come abbiamo potuto costatare prendendo un taxi a Barcellona. L'autista aveva appena terminato di leggerlo e ci ha offerto un piccolo giro per mostrarci dove, secondo lui, si trovavano le case che cercavamo. Più tardi, lo scrittore [Zafón, l'autore de L'Ombra del Vento] ci ha indicato punti diversi, a riprova che ognuno di noi ha la sua propria visione dei luoghi e degli avvenimenti del romanzo" (Burger S., Geel N., Schwarz A., 2007, Promenandes dans la Barcelone de L'Ombre du Vent, Paris, Grasset&Fasquelle, p. 5.)
Un luogo non ha mai lo stesso significato per tutti e il suo carattere non si rivela sempre a prima vista, ma spesso si impara a conoscerlo con il tempo, attraverso la sua frequentazione.

Lisbona
Lisbona mi attira, mi piace! Perché? Non vi è una risposta precisa, ma almeno due possibili.










Luogo dei colori

Lisbona mi attira forse perché i colori si intrecciano gli uni con gli altri.
Domina il rosso e l'arancione delle tegole e dei mattoni. E anche le pietre del castello, che sono grigie, esitano tra il giallo e l'arancione. Il giallo, che mi colpisce a causa delle ombre disegnate sulla parete dalle complicate figure di una scala esterna, sottolinea l'azzurro di un cielo macchiato dagli strascichi bianchi delle nuvole atlantiche. Questo blu intenso si ritrova negli azulejos che ricoprono ancora spesso le facciate di alcune case e di alcune chiese. Ma poi c'è il bianco che, come tutti sappiamo, non è un colore. Il bianco non esiste senza suo fratello gemello, il nero, e se il bianco si diffonde così "naturalmente" in questa città, è perché i suoi abitanti lo hanno saputo addomesticare, catturandolo e trasformandolo in colore. La pietra del monastero dei Geronimi a Belèm, o la torre dal medesimo nome, ne sono un esempio: una pietra grigia, ma di un grigio-bianco, ancora più accecante quando è battuto dal sole. Tuttavia, l'addomesticamento del bianco – l'addomesticamento della luce? – è soprattutto sotto i nostri piedi che si realizza! A Lisbona, bisogna abbassare gli occhi e imparare a guardare per terra: i marciapiedi sono "selciati" con piccoli cubi bianchi e neri. Questo miscuglio di bianco (dominante) e di nero crea tutta una serie di decorazioni, a volte puramente ornamentali, a volte per indicare l'entrata di una banca, di un albergo, di un'amministrazione, di un'impresa. Sono dei veri e propri indicatori stradali per pedoni, e quando l'impresa non esiste più (o ha traslocato), questi "azulejos pedestri" si trasformano in testimoni geografici di un'esistenza passata, un po' come le tracce fossilizzate dei dinosauri. Il verde accompagna tutti i colori. Giardini, siepi, alberi formano un quadro vegetale sparso qua e là e diluito in tutta la città, sovente racchiuso e protetto gelosamente dalle costruzioni. Quando non è all'angolo di una scalinata, è dietro una casa, nella sua corte interna (o in ciò che ne resta a causa della speculazione immobiliare) che troviamo questo colore fatto di aranci o di limoni, ma anche di un disordinato insieme di piante diverse, più o meno spontanee. Lisbona è una vera e propria città dei colori, nella quale anche il bianco e il nero lo diventano.





Luogo dove il tempo è sospeso

Lisbona mi attira, forse, anche perché, più di altre città, è uno spazio nel quale il tempo è sospeso. Essa ha un rapporto particolare con il tempo: qui, il tempo si è fatto spazio.
E’ solo al mio ritorno, quindi dopo il soggiorno, che ho letto Lisbona di Fernando Pessoa, il grande scrittore portoghese contemporaneo (Lisbonne, Paris, Editions 10/18, 2008). Si tratta di un libro-guida, che propone diversi itinerari ad un turista immaginario. Man mano che seguiamo Pessoa nei suoi percorsi, l'impressione che qui il tempo si sia fissato nella pietra si conferma: il passato, nella quantità di monumenti, di chiese e di palazzi e il futuro, nell'architettura contemporanea. Nulla mi sembra più emblematico del faccia-faccia tra l'arena dei tori di Campo Pequeno, costruzione rotonda in mattoni rossi risalente alla fine del XIXo secolo e ispirata alle costruzioni moresche di una volta e quel palazzo rosso-mattone, di un modernismo quasi arrogante, sede di una banca portoghese, insediato poco lontanto dall'arena. Passato e futuro sono ancorati in un presente di pietra. Qui, Gaia sembra prendersi gioco di Chton, la quale con una sola scrollata potrebbe demolire tutto, come fu il caso nel 1755. Poco importa: si ricostruirà, come ha fatto il Marchese di Pombal. Il terremoto del 1755 è senza dubbio il più spettacolare, anche sul piano simbolico (un primo di novembre!), ma non è stato il solo. La terra, impropriamente detta ferma, si muove regolarmente, come molti di noi hanno potuto sentire la notte tra il 16 e il 17 dicembre 2009, quando il letto della mia camera si è messo a "battere il tempo". Un'anziana collega mi confesserà, la sera seguente, che ogni volta si chiede se è solo un aggiustamento o l'inizio di una serie di scosse che andranno amplificandosi. Ecco, Lisbona è una città che costruisce "monumenti" di architettura contemporanea, con la certezza che saranno distrutti un giorno, non dal tempo, ma dalla terra stessa. Si costruisce oggi la nostalgia di domani. Non è forse, in un certo senso, lo spirito del Fado? Nostalgia di un tempo che fu, certamente, ma anche nostalgia di un tempo che verrà e che, a sua volta, non sarà più. La vita e la morte sono i motori della continuità dell'esistenza.

Ricordarsi

"[...] Lisbona crudelmente costruita sulla propria assenza". Così scriveva Sophia de Mello Breyner, oggi incisa in diverse lingue al Castelo de Saõ Jorge: è per questo che quella città fissa il tempo nella pietra?
Lisbona porta il nome di Ulisse, il viaggiatore: e cos'è un viaggiatore, se non un'assenza? Lisbona ci insegna forse che gli esseri umani hanno bisogno di trattenere questa assenza materializzandola attraverso sostituti di presenza: le costruzioni storiche oggi, le costruzioni moderne domani, le fotografie, le cartoline postali e, addirittura, quegli oggetti qualunque che ci portiamo a casa come ricordo, sono tutti riferimenti temporali di uno spazio attraversato, di uno spazio vissuto, fosse anche solo per un attimo.

Ginevra, 24 febbraio 2012





mercredi 22 février 2012

Commenti e reazioni: Claudio Ferrata, Vie e paesaggi


Viaggiando si fa la strada


Claudio Ferrata


  

La strada come infrastruttura


Un sistema di trasporto, soluzione che permette di risolvere i problemi indotti dalla distanza, è costituito da una via, da un mezzo in movimento, da un contesto geografico e, naturalmente, dalla movimentazione di merci o di persone. Le infrastrutture ad esso connesse trasformano l’accessibilità dei luoghi e le territorialità che questi esprimono. Così, lo spazio geografico, da isotropo, non orientato e non differenziato, acquisisce nuove polarità e nuove linee di forza. In questo senso l’allestimento di un sistema di trasporto deve essere visto come strumento privilegiato della produzione e della gestione dei territori. Molte di queste infrastrutture hanno oggi assunto una presenza importante nel paesaggio. Come faceva notare Bernardo Secchi “viadotti e svincolo solcano e connotano, spesso in modi aggressivi, la città, ne separano le singole parti costruendo barriere invalicabili, divengono i principali riferimenti spaziali entro una città che perde la propria misura, la stringono entro cinture sovente troppo strette e ne modificano immagine e modi di funzionare; ponti, viadotti, e gallerie ridisegnano vasti territori in ogni parte del pianeta costruendo nuovi paesaggi”[1]. Molto è già stato detto e scritto sul rapporto tra manufatti stradali e paesaggio e diversi sono stati i progetti che si sono posti seriamente il problema dell’integrazione dell’opera nella dimensione territoriale e paesaggistica, dalle prime parkway americane sino ad alcune esperienze contemporanee. In Francia il ministero dei Trasporti ha deciso di circondarsi di un gruppo di consiglieri comprendenti ricercatori (specialisti in acustica, geografi, filosofi, ecologi) e operatori per meglio integrare le autostrade con il paesaggio e alcune recenti realizzazioni hanno potuto usufruire di una percentuale del costo totale dei lavori da destinare ad un trattamento paesaggistico dell’opera[2]. Da qualche decennio, in Svizzera il disegno dell’oggetto tecnico, dal camino di aerazione al portale della galleria, dal ponte alla scelta della pendenza da attribuire alla massicciata, è seriamente preso in considerazione dai progettisti. È noto il ruolo anticipatore svolto da Rino Tami, in particolare nella costruzione del tratto ticinese dell’autostrada A2. Il lavoro di Tami fu preso a modello da Flora Ruchat-Roncati e Renato Salvi incaricati di curare la parte architettonica e paesaggistica della realizzazione della A16, la Transjurane. Pure in occasione della realizzazione dei recenti tracciati, tra cui quello della A9, l’Autoroute du Rhône, il tratto vallesano della rete autostradale nazionale a cui è dedicato questo numero di ARCHI, è emerso questo genere di preoccupazioni.

Dall’infrastruttura alla via


Al di là dell’interesse e dell’importanza di affrontare il tema delle infrastrutture attraverso queste chiavi di lettura, è possibile considerare la questione adottando un altro punto di vista. È ciò che desideriamo suggerire con questo breve testo. Come ricorda Jean-Marc Besse[3], esistono due tipi di geografie. Una prima che si qualifica come scienza degli spazi concreti, un sapere di stampo positivista che quantifica, descrive strutture, evidenzia polarità e ha come riferimento uno spazio euclideo. Questa geografia altro non è che una scienza dello spazio e delle distanze. In questo caso, l’uomo è un oggetto esterno e passivo. Ma esiste anche una seconda geografia in cui l’individuo è più direttamente coinvolto. Come cercheremo di precisare, il suo agire nello spazio non è passivo o semplicemente determinato dalle condizioni fisiche. Se applichiamo questi due diversi approcci ai temi della mobilità e alla questione dei sistemi di trasporto, notiamo che la prima visione è molto vicina a quella dell’ingegnere capace di costruire manufatti in grado di rispondere alle esigenze e alle sollecitazioni dei mezzi che percorrono le strade, i ponti, le gallerie, siano essi automobili, autocarri o treni, e che segue logiche di razionalità e efficienza. Prendere in considerazione la seconda visione, invertendo in un certo senso l’ordine dei fattori, ci porterebbe invece a privilegiare il viaggiare e l’esperienza del viaggio rispetto al sistema di trasporti. Ci avvicineremmo così a una dimensione che potremmo chiamare “antropologia del paesaggio”, una disciplina ancora in buona parte da costruire. Nella seconda metà del Novecento, lo studioso americano John Brinkerhoff Jackson si fece promotore di un nuovo campo di studi che, sulla base dell’etimo greco hodos (strada e viaggio), definì odologia. Per la verità il termine non fu coniato dallo stesso Jakson ma fu precedentemente introdotto dallo psicologo sperimentale tedesco Kurt Lewin per descrivere le strutture dello spazio vissuto. Ad ogni modo, l’odologia, scienza del cammino e della strada nelle sue implicazioni con il paesaggio, deve essere considerata come una disciplina composita, in parte geografia, in parte planning, in parte ingegneria, si legge in Road Belong to the Landscape[4], saggio dal titolo quanto meno esplicito. Jackson spiega poi che il temine way è più adatto del più recente road significa cammino ma anche direzione, progetto, modalità[5]. Se adottassimo questa prospettiva, alla strada, o meglio ancora, al “fare la strada”, dovremmo attribuire un ruolo attivo nella fabbricazione del paesaggio.

Le lezioni della deriva urbana


Nel primo episodio del suo film Caro Diario (1990), Nanni Moretti ci ha fornito una bella illustrazione delle strette relazioni tra via, percorso e paesaggio. In una assolata domenica estiva, in sella alla sua vespa blu, Moretti attraversa una Roma semi-deserta. La deriva diventa una narrazione che unisce esperienza di viaggio a luoghi. Lo scooter di Moretti è immerso in un paesaggio carico di significati, la percezione del guidatore è dinamica, la camera lo segue da vicino. Il percorso si svolge attraverso lo sviluppo urbanistico della Roma novecentesca del quartiere della Garbatella, continua poi nella periferia fino alla spiaggia di Ostia. Dopo una lunga deriva, come uno stalker, Moretti giunge in un luogo carico di senso e di significato per la storia del Novecento italiano, il luogo dove un semplice “monumento” ricorda la brutale uccisione di Pasolini.
Alcuni anni orsono lo scrittore inglese Iain Sinclair percorse la M25, l’anello autostradale esterno di Londra, dieci corsie che si estendono su una lunghezza di 200 km., lasciando una testimonianza scritta e in immagini video nel suo London orbital (2008). La tappa iniziale e conclusiva del percorso fu il Millenium Dome, il più colossale fallimento del governo Blair. L’autore partì in compagnia di un cineasta e di un artista il 27 marzo 1998 e tornò al punto di partenza il 30 dicembre 1999, poco prima dell’inaugurazione della struttura. Lo scopo esplicito dell’operazione era la ricostruzione delle storie che sopra, dentro, sotto le topografie urbane si sono articolate nel tempo e che emergono nelle loro molteplicità. Due scrittori italiani, Gianni Biondillo e Michele Monina, hanno recentemente applicato il medesimo approccio itinerante e esperienziale alla conoscenza delle periferie milanesi. Nelle pagine del libro pubblicato al seguito di questa esperienza il percorso psicogeografico dei due viandanti ai margini della metropoli si trasforma in una duplice descrizione delle dieci tappe e in un dialogo non privo di ironia, di digressioni su fatti diversi e di analisi urbanistiche.
In fondo gli autori che abbiamo voluto citare sono in buona compagnia, non fanno altro che allinearsi alla lunga tradizione delle derive urbane dei filosofi, letterati, situazionisti, artisti dadaisti, surrealisti e della Land Art. Per questi il movimento non solo condiziona la nostra percezione, ma diventa un metodo e una filosofia. Tra i numerosi autori dobbiamo ricordare il filosofo tedesco Walter Benjamin, colui il quale ha trasformato il flâneur in una figura rappresentativa e emblematica della metropoli del Diciannovesimo secolo. Nel suo Passagen-Werk Benjamin descrisse le vie pedonali coperte di Parigi che egli eresse a simbolo della incipiente modernità, del carattere feticcio delle merci e delle trasformazioni sociali e urbanistiche di questa “capitale del diciannovesimo secolo”. Sul tema della deriva lo scrittore svizzero Robert Walser ci ha poi lasciato pagine stimolanti. Ne La passeggiata (1917), descrizione di una gita di una intera giornata nella periferia e nella campagna della regione del Seeland, egli presentò ai suoi lettori una esperienza fenomenologica completa. Nel suo incedere egli attraversò luoghi ordinari, incontrò persone con le quali si intrattenne per brevi colloqui, osservò il paesaggio, descrisse i cambiamenti di atmosfera e le variazioni del suo umore. Recentemente l’architetto romano Francesco Careri ha attualizzato questo genere di esperienze e teorizzato il metodo della deriva quale strumento euristico e progettuale. Egli promuove quella che chiama la “transurbanza” nei vuoti della città diffusa[6], percorso erratico che permette di entrare in relazione con i “Territori Attuali” delle periferie romane. Dunque, sia esso svolto in modo intenzionale o per semplice necessità di spostamento, il percorrere una via va ben al di là del trasferirsi da un punto A a un punto B divenendo una forma di esperienza estetica e fenomenologica. Camminare può forse permetterci di rinnovare gli interrogativi sulla inafferrabile città contemporanea?

Ogni tecnica di trasporto porta in sé un paesaggio


Ma naturalmente non ci si sposta solo a piedi, ci si può avvalere di mezzi che amplificano le potenzialità della nostra mobilità. La bicicletta, ad esempio, che Marc Augé lega alle sue scoperte giovanili, è un oggetto prodotto da una tecnologia relativamente semplice capace di trasformare la nostra forza muscolare in forza cinetica. Il movimento e la velocità connessi con i mezzi di trasporto, la tecnologia che li governano, “il modo di fare sentirsi e reperirsi” portano con sé un paesaggio. Sono quei paesaggi che Marc Desportes chiama “paesaggi della tecnica”. Il viaggio a piedi, ma pure a cavallo, in carrozza o in bicicletta, costituiva un’esperienza ricca e aperta sul mondo circostante, in diretto contatto con le cose ma l’arrivo del viaggio in ferrovia rappresentò una completa rottura con le esperienze precedenti. La nuova tecnica ferroviaria determina le condizioni del viaggio. Un treno non è altro che una macchina in grado di muoversi su una struttura rigida e lineare (i binari) che si impone sulle morfologie del territorio che attraversa riducendo così l’attrito al minimo. La microfisica del treno e la macrofisica dei binari contribuiscono a costituire il sistema ferroviario. Il viaggio in ferrovia propone un singolare connubio tra la dinamicità esterna e la staticità interna. Dal finestrino il viaggiatore assiste alla creazione di un vero e proprio spettacolo cinetico. Il paesaggio che il viaggiatore osserva, inquadrato da una finestra – come nei dipinti quattro-cinquecenteschi della scuola fiamminga  -  si dipana e si compone costantemente a lato del sedile. Sparisce il primo piano che lascia il posto a ciò che si colloca sullo sfondo. Una volta fissata, l‘immagine permane per un breve momento, poi si stira, e infine si sottrae allo sguardo sostituita da una nuova scena. Diventa allora estremamente difficile cogliere i dettagli del paesaggio. L’occhio deve essere più attento, l’apparato percettivo deve registrare ed elaborare una grande quantità di impressioni sensoriali. Ciò vale anche per le moderne ferrovie.
Una grande rivoluzione nelle modalità di osservare e fruire il territorio si presenta con il viaggio aereo. L’aereo, a cui Le Corbusier dedica anche un suo libro (Aircraft, 1935), ha profondamente modificato la natura dell’esperienza geografica della Terra. L’aeroplano, ricorda Le Corbusier, “scruta, fa in fretta, non si stanca; di più, si immerge nella realtà crudele;  con il suo occhio d’aquila penetra la visione della città”[7]. La novità consiste nel fatto che l’aereo mette a disposizione una visione sinottica che permette di osservare le immobili strutture terrestri in modo dinamico, e di cambiare scala di osservazione. Il pilota e i suoi passeggeri possono così individuare le grandi strutture del territorio ma sono pure in grado di osservare una miriade di dettagli che altrimenti non sarebbero visibili. Torniamo sulla terra e seguiamo la via dell’autostrada. Come nel caso della ferrovia, le finalità di questo sistema di trasporti sono costituite dal completamento del programma di viaggio, quindi dal raggiungimento di un punto nel minor tempo possibile senza perdersi in inutili derive. L’automobile scorre a andatura rapida e regolare sul nastro autostradale disegnato e costruito dalla simulazione ingegneristica. Come mostrato dagli autori di The wiew from the Road (1964), uno studio divenuto classico, Donald Appleyard, Kevin Lynch e John R. Myer con il viaggio autostradale si compie un’esperienza dominata dalla dimensione frontale. Ciò che vede il guidatore ai lati del suo mezzo è meno importante di ciò che si colloca davanti. I paesaggi che scorrono lateralmente vengono quasi dimenticati (per l’eventuale passeggero la visione è più libera). In analogia con le immagini in movimento del cinema, il paesaggio si presenta in modo sequenziale. Il conducente si deve concentrare sulla guida e sulle principali indicazioni fornite dalla segnaletica. Lo specchietto retrovisore gli permette di controllare ciò che avviene alle sue spalle. Una specifica segnalizzazione lo segue lungo tutto il percorso. Alcune volte, indicazioni meno normalizzate suggeriscono al viaggiatore di dare una rapida occhiata a ciò che sta attorno e ricordandogli che attraversa la regione tal dei tali, che si approssima a un sito classificato dall’Unesco, che supera un certo fiume importante. Le specificità del luogo attraversato entrano fugacemente nell’esperienza di viaggio al cui centro rimane comunque quel piccolo spazio chiuso in movimento che è l’automobile che mette i viaggiatori in relazione con il mondo esterno.

La via crea il paesaggio


Cosa insegna allora lo studio della via? Innanzitutto ci ricorda che il tema delle infrastrutture legate ai trasporti non può essere circoscritto al, seppur determinante, aspetto materiale e ingegneristico. L’infrastruttura attribuisce ai luoghi che attraversa nuovi significati e nuove identità. A questo proposito, una bella mostra del Museum für Gestaltung Zürich di alcuni anni fa dal titolo Die Schweizer Autobahn aveva saputo cogliere la quotidianità di un sistema di trasporti, di un “paesaggio della tecnica” dallo statuto culturale incerto come quello autostradale. Gli esiti, anche estetici, dell’edificazione di un sistema di trasporti possono naturalmente essere diversi. A volte il confronto tra natura e artificio permette di far emergere quei tratti del paesaggio che precedentemente faticavamo a cogliere. Considerando il tema dal punto di vista del soggetto, non possiamo assimilare il viaggiatore che percorre una infrastruttura a una merce trasportata passivamente. Viaggiando i suoi sensi si attivano, interpretano e costruiscono le immagini del paesaggio. Il significato di questi luoghi così particolari che sono le vie viene originato dal viaggiatore medesimo e dalla sua esperienza dello spazio. Se volessimo considerare i suggerimenti di una possibile antropologia del paesaggio, dovremmo allora dire che viaggiare è una pratica che va ben al di là della fruizione passiva di una infrastruttura di trasporto. Viaggiando si fa la strada e viaggiando si crea il mondo e il paesaggio che lo rappresenta.


  

Riferimenti bibliografici

  
APPLEYARD David, LYNCH Kevin, MYER John R. (1964), The wiew from the Road, Cambridge Mass., Mit Press.

AUGÉ Marc (2009), Il bello della bicicletta, Torino, Bollati-Boringhieri.

BIONDILLO Gianni, MONINA Michele (2010), Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città, Parma, Guanda.

BESSE Jean-Marc (2009), Le goût du monde. Exercices de paysage, Arles, Actes Sud, Ecole Nationale Supérieure du Paysage.

CARERI Francesco (2006), Walkscapes. Camminare come pratica estetica,Torino, Einaudi.

DONADIEU Pierre, PERIGORD Michel (2007), Le paysage, Paris, Armand Colin.

LE CORBUSIER (1996), Aircraft, Milano, Editrice Abitare Segesta (ed. originale 1935).

HELLER Martin, VOLK Andreas (1999), Die Schweizer Autobahn, Zürich, Museum für Gestaltung Zürich.

LES CARNETS DU PAYSAGE, n. 18, automne-hiver, 2009-2010, Du côté des ingénieurs, Arles, Actes Sud/Ecole Nationale Supérieure du Paysage.

DESPORTES Marc (2005), Paysages en mouvement, Paris, Gallimard.

FERRATA Claudio (2001), « Territorialità e trasporti nella regione alpina »,  in Galfetti A., Tedeschi L. (a cura di), Progetto e territorio. Gli assi di transito e le trasformazioni territoriali del Canton Ticino, Mendrisio, Accademia di architettura Università della Svizzera italiana, pp. 63-82.

JACKSON John Brinkerhoff (2003), A la découverte du paysage vernaculaire, Arles-Versailles, Actes Sud-Ecole Nationale Supérieure du paysage.

JACKSON John Brinkerhoff (1994), A sense of place, a sense of time, New Haven and London, Yale University Press.

LEVY Bertrand (2007), Marche et paysage. Les chemins de la géopoétique, Genève, Metropolis.

SCHIWELBUSCH Wolfang (1988), Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi.

SINCLAIR Iain (2002), London orbital. A piedi attorno alla metropoli, Milano, Il Saggiatore.

SECCHI Bernardo (2005), “Figure della mobilità”, in Casabella 739-740, pp. 80-83.












ARCHI, 4/2010


[1] B. Secchi, “Figure della mobilità”, in Casabella, 739-740, 2005, p. 83
[2] P. Donadieu, M. Périgord, Le paysage, 2007, p. 113
[3] J.M. Besse, Le goût du paysage, 2009, pp. 192-195
[4] J.B. Jackson, “Road Belong to the Landscape”, A sense of place, a sense of time, 1994, pp. 187-205
[5] J.B. Jackson, A la découverte du paysage vernaculaire, Arles-Versailles, Actes sud-Ecole Nationale Supérieure du paysage, 2003, p. 79
[6] F. Careri, Walkscapes, 2006, p. 129
[7] Le Corbusier, Aircraft,1996

vendredi 17 février 2012

Guardare nel paesaggio



Claude Raffestin (2005, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Elementi per una teoria del paesaggio, Firenze, Alinea Editrice, 139 p.), nel suo libro mette in rilievo, riferendosi ad autori come il filosofo Karl Popper, l'esistenza di tre mondi costitutivi della realtà:

"Il Mondo 1, nel quale si prendono in considerazione gli stati materiali delle cose e degli esseri viventi, il Mondo 2 che testimonia degli stati di coscienza che possiamo associare alla conoscenza soggettiva (pensieri, emozioni, ricordi, sogni, immaginazione) e infine il Mondo 3, nel quale interviene il logos, la conoscenza oggettiva o eredità culturale. Interrelati, questi "Mondi" costituiscono un metodo per conoscere la realtà, non soltanto materiale, ma anche rappresentata." (p. 10)
Questa idea dei tre mondi (quello oggettivo-materiale, quello soggettivo e quello razionale-scientifico) applicata al nostro progetto potrebbe essere modellizzata in tre livelli:
- alla base, il Mondo 1, materiale e oggettivo, che è quello sul quale (ma anche: nel quale) costruiremo i nostri percorsi (a piedi, principalmente; torneremo sul concetto di marcia);
- sopra, il Mondo 2, la cui caratteristica - soggettiva - prenderà corpo facendo capo ai cinque sensi (l'udito, l'odorato, il gusto, il tatto e, soprattutto la vista);
- e infine, il Mondo 3, il mondo che il logos saprà trovare: quello che potremmo chiamare la territorialità che vari tipi di documentazione (storica, sociale, ecc.) ci permetteranno di ricostituire.

Prendendo una metafora facendo riferimento al Mondo nel senso più strettamente geografico del termine - il pianeta Terra, per intenderci - il Mondo 1 sarebbe la realtà sottomessa alla forza di gravità, il Mondo 2, il come viviamo la forza di gravità e il Mondo 3 il come spieghiamo la forza di gravità.

Andare a spasso (che sia qui ... lo "spasso", proprio ad ogni pratica di ricerca?) significa immergersi in un ambiente, affilando i propri sensi (i cinque, più il sesto che è quello dell'immaginazione o semplicemente della fantasia) e riflettere sul significato di quel che traspare da questa relazione tra materialità e soggettività. Guardare nel paesaggio (che per ora non abbiamo ancora definito) è un tentativo di identificare ciò che nasce, appunto, da questa relazione.

Ginevra, 17 febbraio 2012



mercredi 8 février 2012

Perché "paeviaggi" ?

Paeviaggi ticinesi
"Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un'Italia vitale e segreta. Ne ho scritto con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora." (Paolo RUMIZ, La Leggenda dei Monti Naviganti, Milano, Universale Economica Feltrinelli, p. 13)

Questo potrebbe essere non l'inizio di un'avventura, ma la sua conclusione. Non sono ancora fuggito dal mondo, anche se a volte ci provo, e non è certo il mio obiettivo. No! più semplicemente, è l'idea dell'autore citato che mi affascina: quella del viaggio di esplorazione di un mondo sul quale nessuno prende il tempo di chinarsi per cercare di scoprire almeno una delle sue essenze. Questo mondo è quello ai margini della spesso decantata "metropoli ticinese" (prima l'avevamo chiamata "città Ticino", ma ora, nella gerarchia del "marketing territoriale", il termine di città fà un po' figura da ritardati: abbiamo finito di essere villaggio, non siamo più nemmeno città, ora siamo metropoli): questo mondo che mi interessa è quello delle valli che tanto sembrano pesare a chi dirige i centri. Non è assolutamente detto che possa trovarvi la "bellezza del paesaggio umano e naturale" di cui parla Rumiz: per Rumiz è stato un fatto, mentre che per me è un'ipotesi. Un'ipotesi corroborata dalle ultime tre letture, quella del Rumiz, appunto, quella del Celati e quella di Biondino e Monina:

Gianni CELATI, Verso la Foce, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011 (1989), 140 p.
[grazie Renato!]

Gianni BIONDILLO, Michele MONINA, Tangenziali, Due viandanti ai bordi della città, Guanda editore, 308 p.
[grazie Tato]

Sono libri del camminare nel mondo della banalità: quello della quotidianità banale, vissuta da ognuno di noi sotto qualsiasi forma. Nei due libri qui sopra, tanto Milano che la Pianura padana, appaiono come il quadro di riferimento geografico delle trasformazioni distruttive del Dopoguerra. Una geografia dentro la quale vivono uomini e donne, animali e un mucchio di mezzi meccanici o cibernetici (torneremo su queste cose!).

Allora, perché non tentare cose simili nel nostro territorio e, in particolare, nelle parti nord-alpine del Ticino. Cominciando magari dalle due valli che mi coinvolgono maggiormente (per diverse ragioni che magari riaffioreranno più tardi!): Blenio e Leventina. Due valli - dal Medioevo almeno - "ombelicamente" legate alle storiche località centrali. Andare a spasso (ma ci avete mai pensato a questa parola? "spasso"? che in italiano rimanda anche all'idea di un divertimento particolarmente intenso: una goduria, insomma! Strana parola!) andare a spasso, dicevo, significa deambulare in un territorio incontrando oggetti che sono altrettante tracce di presenza umana: oggetti che rimandano a loro volta a vissuti, a maniere diverse di usare il territorio. Non tracce nostalgiche di un mondo che fù, ma elementi (magari abbandonati per il momento) costitutivi del presente.

Ecco, in linea di massima, il progetto di questo "blog" (perché non lo possiamo chiamare "diario elettronico"?) e che spiega lo strano titolo di "Paeviaggi": un viaggio attraverso il paesaggio per provare a verificare un metodo di analisi e di osservazione geografiche.

Sarà un diario irregolare (non ho il tempo - e neppure la voglia - di scrivere tutti i giorni), un diario che spazierà tra la comoda sedia del mio ufficio e il terreno impervio delle valli ticinesi (il terreno deve essere impervio per forza! altrimenti non è un'avventura), sul quale (ri)metterò i piedi quando gli obblighi di lavoro, di famiglia e la stagione lo permetteranno.

Per ora ritorno alle mie scartoffie. Sarà meglio cominciare a preparare i corsi, altrimenti settimana l'altra "poca bèla la vö vèss"!

Ginevra, 08.02.2012