vendredi 16 novembre 2012




Toponimie : eredità ?
[Parte di queste riflessioni sono state pubblicate sulla Revue de Géographie Alpine, nella rubrica Lieux-dits.]




 Nel 2008, Mauro Corona pubblica un libro il cui titolo è I fantasmi di pietra. In questo suo libro racconta storie di vita del suo villaggio, Erto, nella regione del Vajont, distrutto dall’alluvione del 1963 e praticamente abbandonato da allora. (cf. anche : Roubault Marcel, 1973). Con il pretesto di una visita sui luoghi della sua infanzia, di cui non restano che le rovine delle case e delle piazze, l’autore si sofferma in questo o in quel luogo e racconta : racconta spezzoni di una vita passata i cui protagonisti sono gente ordinaria della montagna. Incrocia i resti di pietra, dove la traccia delle intemperie si mescola con la vegetazione spontanea che a volte racchiude queste case e a volte le penetra dall’interno. Queste pietre sono i fantasmi di un passato che vive nella sua memoria, quello della sua adolescenza e della sua gioventù. Ad ogni angolo di strada, i fantasmi prendono la forma di un ricordo preciso (avventure dell’adolescente che scopre le prime spinte di testosterone, avventure del giovane bracconiere e della sua banda di compagni, ecc.). Insomma, dietro queste pietre, si cela una vita di villaggio di montagna che non è facile capire se non la si è condivisa e che, oggi, può anche scandalizzare l’anima verde dei cittadini benpensanti che siamo diventati. La fotografia qui sopra non è una pietra  di fantasmi da estrarre dal passato, ma mi sembra poter assumere una funzione equivalente, o per lo meno evocarla. E’ uno spezzone di memoria del territorio. Mi spiego !

Nella sua pubblicazione, Verso una teoria geografica della complessità (1988), Angelo Turco definisce il processo di appropriazione territoriale (la « territorializzazione ») attraverso tre « momenti » : la denominazione, la reificazione e la strutturazione. La reificazione, intesa in senso largo, non si applica solo alla costruzione di stabili o di strade, ma anche ad altri tipi di utilizzo del territorio, soprattutto in montagna, dove alpeggi e pascoli, per esempio, sono il risultato della trasformazione e della riproduzione di un ambiente. La denominazione è, senza dubbio, uno dei primi atti che un gruppo umano relizza identificando gli oggetti (e in senso largo, i luoghi) di cui si serve. La strutturazione delle pratiche spaziali si appoggia sulla coerenza esistente  – e fino a che esiste – tra il nome e gli oggetti. Il toponimo diventa allora un oggetto interessante per la geografia storica (alpina, per quel che mi concerne) nella misura in cui è un « resto » che costituiva una territorialità. Tuttavia, si tratta di una fonte fragile, perché da un lato il suo supporto non è la pietra, ma la memoria (collettiva o individuale) e, dall’altro, anche quando essa è iscritta da qualche parte, come sulla carta topografica per esempio, viene deformata dai criteri propri all’elaborazione della carta.

Nel nostro esempio, questa fragilità della memoria territoriale è particolarmente visibile quando si confronta il luogo fotografato con la carta topografica. Questa, anche considerando una superficie più larga di quella che si potrebbe delimitare a partire dall’immagine, indica solo due misure d’altitudine e il nome della montagna (Sosto), al quale si può ancora aggiungere due o tre altri nomi – in italiano – che suggeriscono una caratteristica generica del terreno (« Boschetto » ; « Parete di Pino », ecc.). Nel cartello fotografato, la medesima montagna è invece ricoperta da una quantità fenomenale di nomi (una trentina sulla parete propriamente detta e più di una cinquantina in tutto) : ogni angolo porta un nome, espressione della pratica spaziale di una comunità per la quale anche il più piccolo filo d’erba era vitale, soprattutto per la sua componente sociale più povera. In queste comunità montane non si esitava a salire sui luoghi più impervi e pericolosi per tagliare e raccogliere il fieno, non raramente a rischio della propria vita, come testimoniano i numerosi ex-voto che possiamo ancora vedere in chiese locali. Questa fotografia è dunque interessante nella misura in cui ci informa sull’utilizzo dello spazio da parte di una società (agraria, montana e tradizionale, nel nostro caso) : un vero e proprio uso capillare. È pure interessante nella misura in cui ci informa sull’atto di denominazione : un atto essenzialmente funzionale e pratico (non vi è nessuna misura astratta, come quella metrica alla quale siamo oggi abituati). Non conosco il significato di tutte le parole, perché qui abbiamo a che fare con una toponimia vernacolare, ma riconosco alcuni termini dialettali che sono anche i miei : il nome del luogo riflette la propria natura, come « Ra Buza », che rimanda ad uno scoscendimento ; « dul castell » che rimanda ad un castello (e in quel posto vi era, nel Medio Evo, una torre appartenente ad un signore di un’altra valle), o ancora, termini come « Pareit » e « Sott Pareit », dove il termine « Sott » indica la posizione (sotto), ecc. In altre parole, il nome informa su una società nella quale la conoscenza è strettamente legata alla pratica. Si sa perché si fa : colui che non è del luogo (del gruppo !) non ne conosce il nome perché non lo pratica.

Tutta questa toponimia non esiste praticamente più oggi perché le pratiche che la sottendevano non esistono più. Ma questi nomi sono fantasmi che informano sull’uso del territorio e questo cartello ha tanto più valore in quanto qualcuno ha voluto ricordarsi della ricchezza umana di questo pezzo di spazio, in altre parole, ha voluto ricordarsi della sua territorializzazione. «La territorializzazione è dunque un grande processo, in virtù del quale lo spazio incorpora valore antropologico ; quest’ultimo non si aggiunge alle proprietà fisiche, ma le assorbe, le rimodella e le rimette in circolo in forme e con funzioni variamente culturalizzate […]» scrive Angelo Turco. Il nome è l’espressione del valore antropologico. 

Ma c’è anche di più :

« Da bambino, nelle mie scorribande toponomastiche che mi lasciavano senza fiato davanti all'atlante, giunsi alla conclusione che se quei favolosi nomi fossero scomparsi dalla carta, i luoghi stessi sarebbero scomparsi. Era un'intuizione corretta: un luogo senza nome cessa di esistere. Per questo sono ancora attaccato alle carte: servono a impedire la cancellazione della memoria. […]Un popolo senza senso della  geografia  è destinato a uscire anche dalla storia.  (Rumiz, p. 312) »
Quando Rumiz (2011, Milano, Feltrinelli) parla delle vecchie  carte è nel senso del supporto di memoria che esse possono rappresentare, perché non è tanto alle carte che si riferisce, ma ai nomi iscritti su di esse. Far parlare la toponimia vernacolare, oggi, significa resistere alla morale dominante che, col pretesto di « ridare » alla natura certi spazi montani, cancella la storia delle loro popolazioni. Così facendo, essa maschera il fatto che ogni spazio detto naturale – soprattutto oggi – è uno spazio umanizzato. Ho avuto modo di vedere questo atto di resistenza implicita percorrendo la Val Cama, all’entrata sud della Mesolcina : in questa valle, trasformata in riserva forestale (dove quindi, in linea di principio, ne è bandito l’uso da parte degli esseri umani), si scoprono, lungo il sentiero, cartelli che indicano il nome del luogo e una breve spiegazione sulla sua origine (etimologica, fattuale o leggendaria). Qualcuno, in maniera modesta certo, ha voluto anche qui ricordare il valore antropologico nascosto dietro lo spazio e mantenerne la memoria. I « resti » (materiali o immateriali) della memoria territoriale non sono il territorio, bensì i segni di un territorio : sta a noi decifrarli e assegnar loro un senso. Possono così  diventare terreno d’incontro tra la geografia, il turista e l’abitante attraverso uno scambio basato sul rispetto reciproco o, più semplicemente, sul rispetto delle culture (a cominciare da quelle – nostrane – che ci hanno preceduto nel tempo).

Riferimenti

Mauro CORONA,2008, I fantasmi di pietra, Milano, Mondadori.

Marcel ROUBAULT, 1973, Les catastrofi naturali sono prevedibili, Alluvioni, terremoti, frane, valanghe, Piccola Biblioteca Einaudi 208, Torino, Einaudi.

Paolo RUMIZ, 2011, La leggenda dei monti naviganti, Universale Economica Feltrinelli, Milano, Feltrinelli.

Angelo TURCO, 1988, Verso una teoria geografica della complessità , Milano, Unicopli.





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