mercredi 22 février 2012

Commenti e reazioni: Claudio Ferrata, Vie e paesaggi


Viaggiando si fa la strada


Claudio Ferrata


  

La strada come infrastruttura


Un sistema di trasporto, soluzione che permette di risolvere i problemi indotti dalla distanza, è costituito da una via, da un mezzo in movimento, da un contesto geografico e, naturalmente, dalla movimentazione di merci o di persone. Le infrastrutture ad esso connesse trasformano l’accessibilità dei luoghi e le territorialità che questi esprimono. Così, lo spazio geografico, da isotropo, non orientato e non differenziato, acquisisce nuove polarità e nuove linee di forza. In questo senso l’allestimento di un sistema di trasporto deve essere visto come strumento privilegiato della produzione e della gestione dei territori. Molte di queste infrastrutture hanno oggi assunto una presenza importante nel paesaggio. Come faceva notare Bernardo Secchi “viadotti e svincolo solcano e connotano, spesso in modi aggressivi, la città, ne separano le singole parti costruendo barriere invalicabili, divengono i principali riferimenti spaziali entro una città che perde la propria misura, la stringono entro cinture sovente troppo strette e ne modificano immagine e modi di funzionare; ponti, viadotti, e gallerie ridisegnano vasti territori in ogni parte del pianeta costruendo nuovi paesaggi”[1]. Molto è già stato detto e scritto sul rapporto tra manufatti stradali e paesaggio e diversi sono stati i progetti che si sono posti seriamente il problema dell’integrazione dell’opera nella dimensione territoriale e paesaggistica, dalle prime parkway americane sino ad alcune esperienze contemporanee. In Francia il ministero dei Trasporti ha deciso di circondarsi di un gruppo di consiglieri comprendenti ricercatori (specialisti in acustica, geografi, filosofi, ecologi) e operatori per meglio integrare le autostrade con il paesaggio e alcune recenti realizzazioni hanno potuto usufruire di una percentuale del costo totale dei lavori da destinare ad un trattamento paesaggistico dell’opera[2]. Da qualche decennio, in Svizzera il disegno dell’oggetto tecnico, dal camino di aerazione al portale della galleria, dal ponte alla scelta della pendenza da attribuire alla massicciata, è seriamente preso in considerazione dai progettisti. È noto il ruolo anticipatore svolto da Rino Tami, in particolare nella costruzione del tratto ticinese dell’autostrada A2. Il lavoro di Tami fu preso a modello da Flora Ruchat-Roncati e Renato Salvi incaricati di curare la parte architettonica e paesaggistica della realizzazione della A16, la Transjurane. Pure in occasione della realizzazione dei recenti tracciati, tra cui quello della A9, l’Autoroute du Rhône, il tratto vallesano della rete autostradale nazionale a cui è dedicato questo numero di ARCHI, è emerso questo genere di preoccupazioni.

Dall’infrastruttura alla via


Al di là dell’interesse e dell’importanza di affrontare il tema delle infrastrutture attraverso queste chiavi di lettura, è possibile considerare la questione adottando un altro punto di vista. È ciò che desideriamo suggerire con questo breve testo. Come ricorda Jean-Marc Besse[3], esistono due tipi di geografie. Una prima che si qualifica come scienza degli spazi concreti, un sapere di stampo positivista che quantifica, descrive strutture, evidenzia polarità e ha come riferimento uno spazio euclideo. Questa geografia altro non è che una scienza dello spazio e delle distanze. In questo caso, l’uomo è un oggetto esterno e passivo. Ma esiste anche una seconda geografia in cui l’individuo è più direttamente coinvolto. Come cercheremo di precisare, il suo agire nello spazio non è passivo o semplicemente determinato dalle condizioni fisiche. Se applichiamo questi due diversi approcci ai temi della mobilità e alla questione dei sistemi di trasporto, notiamo che la prima visione è molto vicina a quella dell’ingegnere capace di costruire manufatti in grado di rispondere alle esigenze e alle sollecitazioni dei mezzi che percorrono le strade, i ponti, le gallerie, siano essi automobili, autocarri o treni, e che segue logiche di razionalità e efficienza. Prendere in considerazione la seconda visione, invertendo in un certo senso l’ordine dei fattori, ci porterebbe invece a privilegiare il viaggiare e l’esperienza del viaggio rispetto al sistema di trasporti. Ci avvicineremmo così a una dimensione che potremmo chiamare “antropologia del paesaggio”, una disciplina ancora in buona parte da costruire. Nella seconda metà del Novecento, lo studioso americano John Brinkerhoff Jackson si fece promotore di un nuovo campo di studi che, sulla base dell’etimo greco hodos (strada e viaggio), definì odologia. Per la verità il termine non fu coniato dallo stesso Jakson ma fu precedentemente introdotto dallo psicologo sperimentale tedesco Kurt Lewin per descrivere le strutture dello spazio vissuto. Ad ogni modo, l’odologia, scienza del cammino e della strada nelle sue implicazioni con il paesaggio, deve essere considerata come una disciplina composita, in parte geografia, in parte planning, in parte ingegneria, si legge in Road Belong to the Landscape[4], saggio dal titolo quanto meno esplicito. Jackson spiega poi che il temine way è più adatto del più recente road significa cammino ma anche direzione, progetto, modalità[5]. Se adottassimo questa prospettiva, alla strada, o meglio ancora, al “fare la strada”, dovremmo attribuire un ruolo attivo nella fabbricazione del paesaggio.

Le lezioni della deriva urbana


Nel primo episodio del suo film Caro Diario (1990), Nanni Moretti ci ha fornito una bella illustrazione delle strette relazioni tra via, percorso e paesaggio. In una assolata domenica estiva, in sella alla sua vespa blu, Moretti attraversa una Roma semi-deserta. La deriva diventa una narrazione che unisce esperienza di viaggio a luoghi. Lo scooter di Moretti è immerso in un paesaggio carico di significati, la percezione del guidatore è dinamica, la camera lo segue da vicino. Il percorso si svolge attraverso lo sviluppo urbanistico della Roma novecentesca del quartiere della Garbatella, continua poi nella periferia fino alla spiaggia di Ostia. Dopo una lunga deriva, come uno stalker, Moretti giunge in un luogo carico di senso e di significato per la storia del Novecento italiano, il luogo dove un semplice “monumento” ricorda la brutale uccisione di Pasolini.
Alcuni anni orsono lo scrittore inglese Iain Sinclair percorse la M25, l’anello autostradale esterno di Londra, dieci corsie che si estendono su una lunghezza di 200 km., lasciando una testimonianza scritta e in immagini video nel suo London orbital (2008). La tappa iniziale e conclusiva del percorso fu il Millenium Dome, il più colossale fallimento del governo Blair. L’autore partì in compagnia di un cineasta e di un artista il 27 marzo 1998 e tornò al punto di partenza il 30 dicembre 1999, poco prima dell’inaugurazione della struttura. Lo scopo esplicito dell’operazione era la ricostruzione delle storie che sopra, dentro, sotto le topografie urbane si sono articolate nel tempo e che emergono nelle loro molteplicità. Due scrittori italiani, Gianni Biondillo e Michele Monina, hanno recentemente applicato il medesimo approccio itinerante e esperienziale alla conoscenza delle periferie milanesi. Nelle pagine del libro pubblicato al seguito di questa esperienza il percorso psicogeografico dei due viandanti ai margini della metropoli si trasforma in una duplice descrizione delle dieci tappe e in un dialogo non privo di ironia, di digressioni su fatti diversi e di analisi urbanistiche.
In fondo gli autori che abbiamo voluto citare sono in buona compagnia, non fanno altro che allinearsi alla lunga tradizione delle derive urbane dei filosofi, letterati, situazionisti, artisti dadaisti, surrealisti e della Land Art. Per questi il movimento non solo condiziona la nostra percezione, ma diventa un metodo e una filosofia. Tra i numerosi autori dobbiamo ricordare il filosofo tedesco Walter Benjamin, colui il quale ha trasformato il flâneur in una figura rappresentativa e emblematica della metropoli del Diciannovesimo secolo. Nel suo Passagen-Werk Benjamin descrisse le vie pedonali coperte di Parigi che egli eresse a simbolo della incipiente modernità, del carattere feticcio delle merci e delle trasformazioni sociali e urbanistiche di questa “capitale del diciannovesimo secolo”. Sul tema della deriva lo scrittore svizzero Robert Walser ci ha poi lasciato pagine stimolanti. Ne La passeggiata (1917), descrizione di una gita di una intera giornata nella periferia e nella campagna della regione del Seeland, egli presentò ai suoi lettori una esperienza fenomenologica completa. Nel suo incedere egli attraversò luoghi ordinari, incontrò persone con le quali si intrattenne per brevi colloqui, osservò il paesaggio, descrisse i cambiamenti di atmosfera e le variazioni del suo umore. Recentemente l’architetto romano Francesco Careri ha attualizzato questo genere di esperienze e teorizzato il metodo della deriva quale strumento euristico e progettuale. Egli promuove quella che chiama la “transurbanza” nei vuoti della città diffusa[6], percorso erratico che permette di entrare in relazione con i “Territori Attuali” delle periferie romane. Dunque, sia esso svolto in modo intenzionale o per semplice necessità di spostamento, il percorrere una via va ben al di là del trasferirsi da un punto A a un punto B divenendo una forma di esperienza estetica e fenomenologica. Camminare può forse permetterci di rinnovare gli interrogativi sulla inafferrabile città contemporanea?

Ogni tecnica di trasporto porta in sé un paesaggio


Ma naturalmente non ci si sposta solo a piedi, ci si può avvalere di mezzi che amplificano le potenzialità della nostra mobilità. La bicicletta, ad esempio, che Marc Augé lega alle sue scoperte giovanili, è un oggetto prodotto da una tecnologia relativamente semplice capace di trasformare la nostra forza muscolare in forza cinetica. Il movimento e la velocità connessi con i mezzi di trasporto, la tecnologia che li governano, “il modo di fare sentirsi e reperirsi” portano con sé un paesaggio. Sono quei paesaggi che Marc Desportes chiama “paesaggi della tecnica”. Il viaggio a piedi, ma pure a cavallo, in carrozza o in bicicletta, costituiva un’esperienza ricca e aperta sul mondo circostante, in diretto contatto con le cose ma l’arrivo del viaggio in ferrovia rappresentò una completa rottura con le esperienze precedenti. La nuova tecnica ferroviaria determina le condizioni del viaggio. Un treno non è altro che una macchina in grado di muoversi su una struttura rigida e lineare (i binari) che si impone sulle morfologie del territorio che attraversa riducendo così l’attrito al minimo. La microfisica del treno e la macrofisica dei binari contribuiscono a costituire il sistema ferroviario. Il viaggio in ferrovia propone un singolare connubio tra la dinamicità esterna e la staticità interna. Dal finestrino il viaggiatore assiste alla creazione di un vero e proprio spettacolo cinetico. Il paesaggio che il viaggiatore osserva, inquadrato da una finestra – come nei dipinti quattro-cinquecenteschi della scuola fiamminga  -  si dipana e si compone costantemente a lato del sedile. Sparisce il primo piano che lascia il posto a ciò che si colloca sullo sfondo. Una volta fissata, l‘immagine permane per un breve momento, poi si stira, e infine si sottrae allo sguardo sostituita da una nuova scena. Diventa allora estremamente difficile cogliere i dettagli del paesaggio. L’occhio deve essere più attento, l’apparato percettivo deve registrare ed elaborare una grande quantità di impressioni sensoriali. Ciò vale anche per le moderne ferrovie.
Una grande rivoluzione nelle modalità di osservare e fruire il territorio si presenta con il viaggio aereo. L’aereo, a cui Le Corbusier dedica anche un suo libro (Aircraft, 1935), ha profondamente modificato la natura dell’esperienza geografica della Terra. L’aeroplano, ricorda Le Corbusier, “scruta, fa in fretta, non si stanca; di più, si immerge nella realtà crudele;  con il suo occhio d’aquila penetra la visione della città”[7]. La novità consiste nel fatto che l’aereo mette a disposizione una visione sinottica che permette di osservare le immobili strutture terrestri in modo dinamico, e di cambiare scala di osservazione. Il pilota e i suoi passeggeri possono così individuare le grandi strutture del territorio ma sono pure in grado di osservare una miriade di dettagli che altrimenti non sarebbero visibili. Torniamo sulla terra e seguiamo la via dell’autostrada. Come nel caso della ferrovia, le finalità di questo sistema di trasporti sono costituite dal completamento del programma di viaggio, quindi dal raggiungimento di un punto nel minor tempo possibile senza perdersi in inutili derive. L’automobile scorre a andatura rapida e regolare sul nastro autostradale disegnato e costruito dalla simulazione ingegneristica. Come mostrato dagli autori di The wiew from the Road (1964), uno studio divenuto classico, Donald Appleyard, Kevin Lynch e John R. Myer con il viaggio autostradale si compie un’esperienza dominata dalla dimensione frontale. Ciò che vede il guidatore ai lati del suo mezzo è meno importante di ciò che si colloca davanti. I paesaggi che scorrono lateralmente vengono quasi dimenticati (per l’eventuale passeggero la visione è più libera). In analogia con le immagini in movimento del cinema, il paesaggio si presenta in modo sequenziale. Il conducente si deve concentrare sulla guida e sulle principali indicazioni fornite dalla segnaletica. Lo specchietto retrovisore gli permette di controllare ciò che avviene alle sue spalle. Una specifica segnalizzazione lo segue lungo tutto il percorso. Alcune volte, indicazioni meno normalizzate suggeriscono al viaggiatore di dare una rapida occhiata a ciò che sta attorno e ricordandogli che attraversa la regione tal dei tali, che si approssima a un sito classificato dall’Unesco, che supera un certo fiume importante. Le specificità del luogo attraversato entrano fugacemente nell’esperienza di viaggio al cui centro rimane comunque quel piccolo spazio chiuso in movimento che è l’automobile che mette i viaggiatori in relazione con il mondo esterno.

La via crea il paesaggio


Cosa insegna allora lo studio della via? Innanzitutto ci ricorda che il tema delle infrastrutture legate ai trasporti non può essere circoscritto al, seppur determinante, aspetto materiale e ingegneristico. L’infrastruttura attribuisce ai luoghi che attraversa nuovi significati e nuove identità. A questo proposito, una bella mostra del Museum für Gestaltung Zürich di alcuni anni fa dal titolo Die Schweizer Autobahn aveva saputo cogliere la quotidianità di un sistema di trasporti, di un “paesaggio della tecnica” dallo statuto culturale incerto come quello autostradale. Gli esiti, anche estetici, dell’edificazione di un sistema di trasporti possono naturalmente essere diversi. A volte il confronto tra natura e artificio permette di far emergere quei tratti del paesaggio che precedentemente faticavamo a cogliere. Considerando il tema dal punto di vista del soggetto, non possiamo assimilare il viaggiatore che percorre una infrastruttura a una merce trasportata passivamente. Viaggiando i suoi sensi si attivano, interpretano e costruiscono le immagini del paesaggio. Il significato di questi luoghi così particolari che sono le vie viene originato dal viaggiatore medesimo e dalla sua esperienza dello spazio. Se volessimo considerare i suggerimenti di una possibile antropologia del paesaggio, dovremmo allora dire che viaggiare è una pratica che va ben al di là della fruizione passiva di una infrastruttura di trasporto. Viaggiando si fa la strada e viaggiando si crea il mondo e il paesaggio che lo rappresenta.


  

Riferimenti bibliografici

  
APPLEYARD David, LYNCH Kevin, MYER John R. (1964), The wiew from the Road, Cambridge Mass., Mit Press.

AUGÉ Marc (2009), Il bello della bicicletta, Torino, Bollati-Boringhieri.

BIONDILLO Gianni, MONINA Michele (2010), Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città, Parma, Guanda.

BESSE Jean-Marc (2009), Le goût du monde. Exercices de paysage, Arles, Actes Sud, Ecole Nationale Supérieure du Paysage.

CARERI Francesco (2006), Walkscapes. Camminare come pratica estetica,Torino, Einaudi.

DONADIEU Pierre, PERIGORD Michel (2007), Le paysage, Paris, Armand Colin.

LE CORBUSIER (1996), Aircraft, Milano, Editrice Abitare Segesta (ed. originale 1935).

HELLER Martin, VOLK Andreas (1999), Die Schweizer Autobahn, Zürich, Museum für Gestaltung Zürich.

LES CARNETS DU PAYSAGE, n. 18, automne-hiver, 2009-2010, Du côté des ingénieurs, Arles, Actes Sud/Ecole Nationale Supérieure du Paysage.

DESPORTES Marc (2005), Paysages en mouvement, Paris, Gallimard.

FERRATA Claudio (2001), « Territorialità e trasporti nella regione alpina »,  in Galfetti A., Tedeschi L. (a cura di), Progetto e territorio. Gli assi di transito e le trasformazioni territoriali del Canton Ticino, Mendrisio, Accademia di architettura Università della Svizzera italiana, pp. 63-82.

JACKSON John Brinkerhoff (2003), A la découverte du paysage vernaculaire, Arles-Versailles, Actes Sud-Ecole Nationale Supérieure du paysage.

JACKSON John Brinkerhoff (1994), A sense of place, a sense of time, New Haven and London, Yale University Press.

LEVY Bertrand (2007), Marche et paysage. Les chemins de la géopoétique, Genève, Metropolis.

SCHIWELBUSCH Wolfang (1988), Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi.

SINCLAIR Iain (2002), London orbital. A piedi attorno alla metropoli, Milano, Il Saggiatore.

SECCHI Bernardo (2005), “Figure della mobilità”, in Casabella 739-740, pp. 80-83.












ARCHI, 4/2010


[1] B. Secchi, “Figure della mobilità”, in Casabella, 739-740, 2005, p. 83
[2] P. Donadieu, M. Périgord, Le paysage, 2007, p. 113
[3] J.M. Besse, Le goût du paysage, 2009, pp. 192-195
[4] J.B. Jackson, “Road Belong to the Landscape”, A sense of place, a sense of time, 1994, pp. 187-205
[5] J.B. Jackson, A la découverte du paysage vernaculaire, Arles-Versailles, Actes sud-Ecole Nationale Supérieure du paysage, 2003, p. 79
[6] F. Careri, Walkscapes, 2006, p. 129
[7] Le Corbusier, Aircraft,1996

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